Psicoanalisi e regolazione affettiva - Associazione Essere Con
05 ottobre 2019

Psicoanalisi e regolazione affettiva

Psicoanalisi e regolazione affettiva

 

[caption id="attachment_1807" align="alignnone" width="422"] Kohut, Winnicott, Bion.[/caption]

La regolazione affettiva tra i principali modelli della psicoanalisi: Winnicott, Bion, Kohut e i postbioniani (A. Ferro).

A cura di Ivano Frattini

Il concetto di regolazione e il problema della sua interiorizzazione può essere ritrovato in tutti i modelli psicoanalitici ad impronta relazionale. Prenderemo in considerazione dettagliatamente il pensiero di autorevoli psicoanalisti di ieri e di oggi : Donald Winnicott, Wilfred Bion, Heinz Kohut e Antonino Ferro.

Donald Winnicott

Winnicott è stato forse il primo a sottolineare in modo deciso quanto la mente (e ovviamente anche il corpo) del bambino non potevano essere visti come un sistema isolato, ma come, specie nelle prime epoche di vita, madre e bambino formassero un sistema integrato, quello che oggi si chiama regolazione reciproca. All'inizio, per Winnicott, non esiste qualcosa di simile all'Io: esiste la «continuità del continuare ad esistere», un procedere personale, una continuità nello sperimentare- una descrizione del genere la ritroveremo in Stern. Questa continuità è periodicamente interrotta da fasi di reazione alle pressioni. L'ambiente ottimale viene incontro ai bisogni del bambino attraverso delle cure che in un primo momento sono esclusivamente fisiche, ma che richiedono comunque un certo atteggiamento emozionale, che contribuisce a formare appunto lo holding materno. Esso è chiamato da Winnicott la «preoccupazione materna primaria». La madre si mette in sintonia con i bisogni del bambino e ne fornisce la realizzazione: quando il bambino desidera il seno, glielo porge, e così il gesto o l'allucinazione dell'infante viene reso reale, e si sviluppa il fenomeno dell'illusione. Il seno è vissuto dal bambino come parte di sé stesso, e sotto controllo magico. Così, per Winnicott, uno sviluppo sano del Sé e la sua solidità richiedono come precondizione la conferma nel bambino della sua originaria onnipotenza – e questo aspetto lo ritroveremo in Kohut. Lo sviluppo sano, e la separazione, richiedono il passaggio da uno stato di dipendenza assoluta a uno di dipendenza relativa, e il fallimento graduale del perfetto adattamento materno, attraverso il passaggio intermedio della fase dell'oggetto transizionale. Il fallimento non ottimale delle cure materne nella fase della dipendenza assoluta porta all'esperienza della non-integrazione e dell'annichilimento del Sé, e mettono in moto un modello di "frammentazione dell'essere" che è il contrario della "continuità del continuare ad esistere". Per prevenire questa catastrofe psichica, l'intelletto (e quindi una funzione dell'Io) assume un ruolo per così dire vicario rispetto al fallimento dell'ambiente, di assistenza e sostegno al Sé, tramite l'organizzazione di una struttura difensiva, su una base di compiacenza e di adeguamento alle richieste esterne. Si costruisce così il falso Sé, attraverso questa forma di ipertrofia del pensiero, ed esso rappresenta una fonte di inautenticità e di sofferenza psicologica, dietro un'apparenza di funzionalità e buon adattamento all'ambiente. Il falso Sé condiscendente si contrappone al vero Sé, «da cui vengono il gesto spontaneo e l'idea personale», ma in qualche modo lo nasconde, allo scopo di proteggerlo dallo sfruttamento, dalla alienazione e dallo svuotamento. Il Sé di Winnicott è un'esperienza che corrisponde al nucleo della personalità, è intimamente legato alla fenomenologia della riflessività, attraverso l'altro e in sé stessi. Per Winnicott, quindi, l’assioma fondamentale è che la mente è una struttura relazionale e non può nutrirsi da dentro, se prima non sia stata nutrita da fuori, attraverso dei buoni legami.

L’integrazione psico-somatica per Winnicott

L’esistenza psicosomatica per Winnicott (1987) “è una conquista e, benché si fondi su una tendenza ereditaria alla crescita, non può diventare una realtà senza la partecipazione attiva di un essere umano che contenga e manipoli il bambino. Un fallimento in questo ambito ha a che fare con tutte le difficoltà che insidiano la salute fisica e che in effetti derivano da una debole struttura della personalità.” Perché il bambino sviluppi in armonia la sua identità è necessario un ambiente “sufficientemente buono”, una madre-ambiente, cioè, capace di adattarsi al meglio ai suoi bisogni. All’inizio della vita la madre è per il neonato l’ambiente non ancora separato da Sé, perché per lui è fondamentale poter fruire di quella “continuità”, di quella “unicità somatica onnipotente” (Winnicott, 1989-1988) che ha visto andare in frantumi dopo la nascita. Riesce pertanto (Winnicott, 1961) a recuperare almeno in parte le esperienze fetali positive in presenza di una madre che sia in grado di riproporgli i vecchi ritmi. Di fornire al corpo sensazioni nuove, ma note. Questo si può chiamare il Sé sensoriale, un “Sé che va facendo esperienza di sé sulla base prevalente di sensazioni che, per la mente infantile in questo stadio, sono un prodotto di sé, create da sé” (Lanza, 2007). Questo permette, in qualche modo, di organizzare un senso mentale di totalità, tale da sostenere l’esperienza della frammentazione iniziale, e tenere coese le parti del Sé. Questo avviene sulla base della sensorialità attuale di reale contatto con la madre, che si rifà alle tracce mnestiche delle sensazioni corporee esperite precedentemente nelle fasi fetali. Il bambino gradualmente impara a separare l’ambiente da sé, il me dal non me. Questo avviene in contemporanea con la maturazione biologica, e all’acquisizione sempre più cosciente di quei canali sensoriali che gli permettono di interagire a distanza con l’ambiente esterno (vista, udito) che caratterizzano la separatezza. La madre deve, in questa fase permettere al bambino di compiere le sue esperienze sensoriali, aiutarlo a differenziarle, e favorire l’emergere del nuovo Sé, il Sé percettivo. Fase delicata in quanto il bambino comincia ad accorgersi del cambiamento, dello spazio, del tempo, della separatezza, e quindi emerge con forza la paura di frammentazione, non essendo ancora l’”integrazione psico-somatica” consolidata. Per Ogden (2008) l’holding di Winnicott è un concetto ontologico in cui è in gioco l’essere e la sua relazione con il tempo. La madre all’inizio della vita salvaguardia la continuità dell’essere del bambino, in parte isolandolo dall’aspetto “non me” del tempo. La maturazione implica l’interiorizzazione graduale da parte del bambino dell’holding materno della continuità dell’essere. Al contrario, il contenitore-contenuto di Bion riguarda l’elaborazione (sognare) dei pensieri derivati dall’esperienza emotiva vissuta. Il contenitore-contenuto si rivolge all’interazione dinamica di pensieri prevalentemente inconsci (il contenuto) e alla capacità di sognare e pensare quei pensieri (il contenitore). L’holding di Winnicott è evocativa di immagini di un madre che con sicurezza e tenerezza tiene tra le braccia il suo bambino, e quando il bambino è in uno stato di disagio lo tiene più stretto al seno. Ma L’holding, per Winnicott, è un concetto che va al di là di questa semplice immagine, anche se vera ed importante, come Ogden ha dichiarato esso è un concetto ontologico che egli usa per esplorare le qualità specifiche dell’esperienza dell’essere vivi in diversi stadi evolutivi, tanto quanto il cambiamento dei mezzi intrapsichici-interpersonali attraverso i quali è mantenuto nel tempo il senso della continuità dell’essere. La “continuità dell’essere “going on being” è la primissima qualità, per Winnicott, generata in un contesto di Holding. Questa è un’espressione fatta solo di verbi è priva di soggetto. Riesce a trasmettere il sentimento di un’esperienza dell’essere vivo da parte del bambino prima di essere diventato soggetto. Una delle principali funzioni del primo holding materno è quello di isolare lo stato di continuità del tempo del bambino, dall’inflessibile alterità del tempo. Quest’ultimo è il tempo creato dall’uomo; il tempo degli orologi e dei calendari, dell’allattamento ogni quattro ore, del giorno e della notte, degli orari lavorativi, della madre del padre, delle tappe evolutive come descritte nei libri sullo sviluppo. Il tempo in tutte queste forme dice Ogden (2008) è un’invenzione umana (anche l’idea di come si vive il giorno e la notte) che non ha niente a che fare con l’esperienza del bambino; il tempo è estraneo al bambino in uno stadio in cui la consapevolezza del “Non-me” è insopportabile e disruttiva per la continuità dell’essere. All’inizio, l’holding materno, assorbe l’impatto del tempo, con un costo fisico emotivo molto elevato da parte della madre (per esempio, rinunciandola tempo di cui lei ha bisogno per dormire, al tempo di cui lei ha bisogno per dormire, al tempo di cui ha bisogno per il rifornimento emotivo che trova nello stare con qualcuno che non sia il bambino, e al tempo per fare cose per se stessa senza il bambino). Quindi l’holding materno in un primo periodo implica che la madre entri nel senso del tempo del bambino, e trasformi in questo modo, al suo posto, l’impatto della diversità del tempo e crei sempre al suo posto l’illusione di un mondo in cui il tempo è misurato quasi interamente in termini di ritmi fisici e psicologici. Quei ritmi includono i ritmi del suo bisogno di sonno e veglia, del suo bisogno di relazione con gli altri e del suo bisogno di isolamento , i ritmi della fame e della sazietà, i ritmi del respiro e del battito cardiaco. Lo Stato emotivo della madre coinvolto nell’atto di mantenere (holding) il bambino nel suo stato precoce di continuità dell’essere è definito “preoccupazione materna primaria” (Winnicott, 1956). Questo anche è uno stato senza soggetto. Deve essere così perché la percezione della presenza della madre-come-soggetto strapperebbe il tessuto delicato che costituisce la continuità dell’essere del bambino. Nella preoccupazione materna primaria la madre si mette al posto del bambino, non c’è niente come una madre. La madre si mette al posto del suo bambino e nel fare questo annulla se stessa non solo per come lei stessa fa esperienza di sé. Tale stato psicologico è “quasi una malattia” (Winnicott 1956) “ una donna deve essere sana per poter raggiungere questo stato sia per uscirne quando il bambino la lascia libera” (Winnicott, 1956).

L’insediamento della psiche nel corpo

Winnicott (1970) ha parlato del ruolo degli stati non integrati, che precedono il senso di integrazione del Sé e dell’insediamento della psiche nel corpo nello sviluppo precoce del bambino. Ha mostrato inoltre come un fallimento di questi processi possa contribuire alla formazione della personalità schizoide e dei disturbi psicosomatici. E’ qui in gioco il successo o meno dell’Holding e del Handling fisico della madre verso il piccolo, che gli permettono di sentire la psiche come parte del corpo in un’esperienza di continuità dell’essere. Una localizzazione errata della mente nella testa potrebbe derivare, dal fallimento di questo insediamento della psiche nel corpo, con una scissione della mente rispetto al corpo. Tutto ciò , combinato con una sopravvalutazione della mente a spese di un sentimento di essere vivo. Prima che possa aver luogo l’insediamento della psiche nel soma, un bambino dovrebbe sperimentare ciò che Winnicott ha appunto chiamato gli “stati non integrati”. Questi sono resi tollerabili al bambino attraverso un holding soddisfacente da parte della madre, che consente così la successiva integrazione del Sé. In un adulto sano, che ha potuto godere di esperienze precoci positive circa la modalità di essere tenuto dalla madre, tali stati non integrati possono essere risperimentati nei momenti di rilassamento, quale segno di sanità. Il fallimento invece nelle esperienze sane a sostegno di tali stati non integrati, come lo ritroviamo nell’individuo schizoide o psicosomatico, può portare alla paura del crollo per Winnicott. Per tale motivi bisognerebbe stare molto attenti a proporre indiscriminatamente esercizi di rilassamento senza una dovuta elaborazione, come avviene spesso oggi, a persone che potrebbero stare molto male ed avere un crollo psichico. Winnicott ritiene che questa paura del crollo ha che fare con un numero di difese, incluse il self-holding e la depersonalizzazione (sentire una disconnessione fra corpo e mente), che proteggono l’individuo contro le angosce di cadere per sempre e contro la disgiunzione psicosomatica. Anzieu nel suo libro “lo Pelle” (1994) citando Winnicott sottolinea che la personalizzazione si fonda sul modo cha ha la madre di maneggiare il bambino; mentre il modo in cui essa lo tiene contribuisce a fondarne l’integrazione nel tempo e nello spazio. La depersonalizzazione sarebbe quindi determinata, data la precarietà del legame, dalla perdita del rapporto con l’oggetto personalizzante. Vediamo meglio come si svolge questo processo integrativo di psiche e soma per Winnicott. Secondo Winnicott lo psiche-soma è la forma più primitiva della vita mentale, presente sin dai primi momenti dopo la nascita in modo discontinuo e poi progressivamente più stabile nelle diverse età della vita accanto ai prodotti più complessi del pensiero cosciente ed inconscio. La psiche e il soma debbono essere distinti l’una dall’altro, ma non sono separati, si integrano e continuano per tutta la vita ad essere aspetti diversi di una sola unità. Questa unità di soma e psiche deve trovare una continuità garantita di esistenza nell’area intermedia della creatività fantasiosa dello spazio transizionale. Questa è la base, in termini Winnicottiani, di ciò che significa l’integrazione psiche-soma e il sentirsi ed essere “Vivi”. Quindi questo sistema di regolazione che ha la sua origine a livello biologico-neurofisiologico-comportamentale, pian piano si sposta ad un livello sempre più psicologico, via via che la mente del bambino sviluppa la capacità di formare simboli, pensare ed usare il linguaggio e che il bambino diventa sempre più consapevole di essere separato dalla madre. Sul piano fenomenologico si manifesta come la vitalità dell’individuo: il senso pieno della fame, quello della sazietà, il buon tono muscolare, la coordinazione motoria e così via esprimono la vita psichica della persona, che è primariamente il suo corpo vivo o, per meglio dire, il suo soma. Ben conosciute dagli psichiatri sono le dissociazioni patologiche tra psiche e soma che si hanno in alcune psicosi e nelle cosiddette malattie psicosomatiche; esistono anche dissociazioni fisiologiche come lo smarrimento nel tempo e nello spazio che può accompagnarsi ad un brusco risveglio. Sul piano dell’attività rappresentativa allo psiche-soma corrisponde l’elaborazione immaginativa del funzionamento corporeo al suo livello più semplice (1949, 1965).

Dato che si tratta di un livello in cui il fisico e il mentale sono indifferenziati, si capisce perché quando da questo prende origine un sentimento di angoscia, esso può manifestarsi tanto in forma fisica che in forma psicologica.”Winnicott dice /1988):” All’inizio c’è la non integrazione, non c’è legame tra corpo e psiche e nessun luogo per una realtà “non-me”…In questo stadio l’unità è rappresentata dal set up individuo-ambiente del quale il nuovo essere umano è soltanto una parte….il nuovo individuo non ha ancora il potere di discernere l’ambiente, anche perché non si è ancora costituito un Sé individuale in grado di discriminare tra “Me” e “Non Me”. Se volessimo guardare con gli occhi del bambino ci renderemmo conto che non abbiamo ancora raggiunto lo stadio in cui c’è un punto da cui guardare. Eppure, il germe di tutto lo sviluppo futuro è là, e la continuità dell’esperienza dell’essere è fondamentale per la futura salute del bambino che sarà un individuo. “

L’opposto dell’integrazione dice Winnicott: ”sembrerebbe essere la disintegrazione. Questo è vero solo in parte e all’inizio l’opposto dell’integrazione va designato con termine come inintegrazione. Rilassarsi per un infante significa non sentire il bisogno di integrarsi, essendo data per scontata la funzione di sostegno dell’Io svolta dalla madre. “ La paura della disintegrazione invece è una difesa che sorge dopo che il crollo già è avvenuto e Winnicott dice:” Il caos della disintegrazione può essere tanto “cattivo” quanto la inattendibilità dell’ambiente, ma ha il vantaggio di essere prodotto dal bambino e perciò di non essere imputabile all’ambiente: è nella zona dell’onnipotenza del bambino.” Seguiamo Winnicott (1971) nel discorso “Il trauma deriva da una pressione da parte dell’ambiente e dalle reazioni dell’individuo a questa pressione che si verifica prima che egli abbia sviluppato i meccanismi necessari a rendere prevedibile l’imprevedibile. Subito dopo le esperienze traumatiche, vengono rapidamente organizzate nuove difese, ma un attimo prima che queste possano mettersi in opera l’individuo sperimenta una rottura della continuità esistenziale (registrata nel suo calcolatore personale) determinata dalla reazione automatica al fallimento ambientale.” Queste sono per Winnicott le conseguenze possibile di un trauma che avviene quando il processo dell’integrazione ancora è terminato:

Nessuna integrazione mantenuta Angoscia di disintegrazione

Parte di integrazione mantenuta Angosce agoniche primitive come le chiama Winnicott: Cadere per sempre, andare in tutte le direzioni perdita dell’orientamento, scissione somatica, testa e corpo perdita di una relazione orientata con gli oggetti

Integrazione mantenuta Ambiente fisico imprevedibile invece che medio attendibile. Si riesce a formare quindi una rappresentazione psichica interna , anche se patologica degli oggetti esterni, a differenza degli altri stati dove l’angoscia diviene pressoché impensabile e mantenuta ora diremo nella memoria implicita in maniera dissociata dall’Io.

Fasi della crescita per Winnicott

Nelle settimane che precedono e seguono il parto, la madre è in una condizione psicologica particolare che Winnicott chiama “preoccupazione materna primaria”. L’esperienza accumulata nel passato porta la madre a avere delle fantasie inconsce sul figlio; si chiude in se stessa e sperimenta quasi uno stato dissociativo, che le dà la capacità di modellarsi intorno all’individualità del suo particolare bambino. Passati i primi tempi, la madre “sana” sarà capace di tornare al suo stato di normalità, rientrando gradualmente nella sua vita. Un aspetto fondamentale della reciprocità fra madre e neonato è per Winnicott il rispecchiamento del Sé del bambino in quello della madre, che inizia quando il bambino è appena nato. Influenzato dall’opera di Lacan, ma anche dalla teoria di introiezione e proiezione di Freud, Winnicott sostiene che la madre, guardando il bambino, e scorgendo in esso una persona intera, rimanda al bambino stesso questa immagine. Crescendo, il bambino diminuisce la necessità di derivare il suo Sé dallo sguardo materno (o da quello di altre figure di riferimento), e il rispecchiamento diventa interiorizzato. Il bambino si muove da uno stadio di dipendenza assoluta verso l’indipendenza, passando attraverso una condizione di dipendenza relativa. Le prime conquiste che raggiunge il lattante (generalmente, in condizioni di salute, entro il primo semestre di vita) sono l’integrazione dell’Io, la personalizzazione e l’inizio della relazione oggettuale. L’integrazione fa sì che le componenti somatiche e psichiche si incontrino in un Sé unitario e l’ambiente (la madre, essenzialmente) comincia a essere sentito come qualcosa di diverso da sé. In questo momento, la funzione materna principale è quella del contenimento (holding), che protegge il bambino da possibili danni fisici, che è consapevole della sua enorme sensibilità, sia fisica che psichica, che agisce sapendo che il bambino ignora l’esistenza di qualcosa che sia altro da sé, che gli fornisce tutte le cure necessarie e si accorge dei cambiamenti, anche minimi, che intervengono nella sua crescita. L’Io debole e immaturo del bambino è supportato dal sostegno che la madre è in grado di fornire. Il bambino comincia così ad avere fiducia nella madre e, per riflesso, nel mondo esterno. L’holding è alla base della capacità che avrà il bambino di fare esperienza di se stesso; fornisce sostegno all’Io prima che esso sia integro. Grazie al supporto materno, il bambino può anche permettersi di tornare temporaneamente a stadi di non integrazione, che saranno forieri nella vita adulta della capacità di rilassarsi e godere della solitudine. La capacità di stare soli è per Winnicott uno dei segni maggiormente importanti della maturità emotiva. Nel suo lavoro, «La capacità di essere solo» (1958) Winnicott affronta il problema del processo di maturazione emozionale dal punto di vista degli stadi successivi e non da quello delle prime fasi di sviluppo, come fa Melanie Klein. Il paradosso che Winnicott mette in evidenza è che la capacità di essere solo è costituita dalla capacità di essere solo in presenza di un altro, esperienza che affonda le sue radici nella fase della dipendenza assoluta in cui è fondamentale la copertura dell’Io in statu nascendi da parte della madre. Per esempio la madre cucina, o legge un libro sul divano, o parla con un’amica o col marito, ma «butta» di tanto in tanto uno sguardo al bambino che gioca, non necessariamente con giocattoli, che fanno un minimo di rumore ma a volte in modo «interiorizzato», in fantasia, un gioco rivelato solo da accenni di movimenti delle mani o da impercettibili balbettii (c’è in questo l’elemento della fiducia tra madre e bambino come collante ineludibile). La presenza di questo altro può essere all’inizio riconosciuta da parte della madre o da un osservatore esterno ma non ancora dal bambino che è temporaneamente protetto dall’impingement del terrore, cosa che permette l’evoluzione dello sviluppo dell’Io e alla fine della forza dell’Io di essere realmente capace di stare solo. Come si vede Winnicott non abbandona mai il fondamento della sua teoria dell’ambiente facilitante: ma come di consueto lo vede in termine di processo che «non può essere dato per scontato» (come ripete spessissimo) ma che gradualmente accompagna il bambino nelle acquisizioni di alcune capacità. E come sostiene Winnicott (1958), «soltanto quando è solo (cioè solo in presenza di un altro) il bambino può scoprire la sua vita personale… può fare qualcosa di equivalente a ciò che in un adulto si chiamerebbe rilassarsi… può esistere per un po’ di tempo senza essere qualcuno che reagisce alle interferenze esterne o una persona attiva con un direzione dettata da un interesse o da un movimento»

Per personalizzazione Winnicott intende l’avere uno schema corporeo personale, dentro cui alberga la psiche, ampliando l’idea freudiana contenuta ne “L’Io e l’Es”. Con la personalizzazione, la psiche prende sede nel corpo, che contiene l’intero Sé. Questo insediamento della psiche nel corpo viene facilitato dall’ambiente sufficientemente buono che maneggia naturalmente e spontaneamente il bambino in un modo particolare (handling), consapevole che egli è un’unità e non un insieme di più parti. Grazie alla manipolazione adeguata, il bambino accetta il corpo come parte del Sé, e sente che il Sé ha sede all’interno del corpo; allo stesso modo conosce i confini fra il corpo-me e l’esterno al corpo-non-me. Questo senso di unità sta alla base, della coordinazione e dell’armonia corporea. Grazie alla fusione con la madre delle prime settimane di vita, il bambino sperimenta il primo senso di identità e di esistenza. Da questa relazione primitiva nasce, se la madre è capace di rispettare i tempi del bambino, la prima relazione d’oggetto, in cui il bambino ha la sensazione di creare la madre stessa e le sue cure: grazie alla ripetitività del prendersi cura di lui ad opera della madre, il bambino sviluppa l’aspettativa che i suoi bisogni siano quasi perfettamente esauditi, generando un vissuto di onnipotenza e cominciando a percepire gli oggetti esterni come oggetti soggettivi che può controllare. Grazie al senso di onnipotenza, il bambino può cominciare a sviluppare la capacità di esperire una relazione con l’esterno, e il formarsi di una concezione della realtà esterna. Gli viene consentita l’illusione onnipotente di aver creato quanto ha davanti agli occhi

“Io sono” dopo l’integrazione

Winnicott afferma (1987):”Preferiamo iniziare con la parola essere e poi con l’affermazione “Io sono”. La cosa importante è che “Io sono” non significa nulla se non c’è il presupposto che l’Io” all’inizio” sono insieme ad un altro essere umano” non differenziato. Per questa ragione è più corretto parlare di “Essere” anziché ricorrere alle parole “IO sono” che riguardano uno stato successivo. Occorre sottolineare che l’essere” è l’inizio di tutte le cose e senza di esso il “fare” e l’”essere fatto per” non avrebbero significato”. E’ l’”Io sono” che dà senso all’”Io Faccio”. Tutto questo è per Winnicott una fase maturativa evolutiva, dove l” Io sono” implica la perdita della rassicurante fusione originaria, nel momento in cui l’ambiente facilitante, cioè la madre sufficientemente buona, contribuisce a rafforzare l’Io del bambino. Curioso che millenni prima il filosofo presocratico Eraclito pensasse come il principio universale che unisce le differenze il “Polemos” cioè la guerra. Ma la guerra non nel senso di come viene inteso di solito. Eraclito porta alla luce che l'identità delle cose è il loro stesso essere diverse ed opposte, il loro stesso diversificarsi dalle altre, e opporsi alle altre; e chiama “guerra” Polemos l'opposizione in cui ogni cosa consiste e da cui è generata. Quindi riepilogando lo psiche-soma è la matrice concettuale dalla quale si sviluppano ulteriori caposaldi del pensiero di Winnicott. É la base della “personalization”, altro termine creato da Winnicott per descrivere il divenire una persona a partire dalla molteplicità delle esperienze corporee ed emotive vissute tra la madre ed il bambino. Detto in altro modo, al centro della persona che ciascuno sente di essere sta lo psiche-soma, che Winnicott chiama anche il vero sé per distinguerlo dal modo sociale di essere una persona che definisce, per contrapposizione, falso sé: il vero sé è inconscio e spontaneo – come il gesto spontaneo oppure il respiro; il falso sé è consapevole, disciplinato e compiacente. L’amore della mamma, che accetta incondizionatamente il suo bambino, fa dello psiche-soma un vero sé sano anche quando il bambino è malato, handicappato o deforme. Solo con il progressivo sviluppo intellettuale il bambino si renderà conto dei propri limiti senza che siano però compromesse le fondamenta della persona e dunque anche le possibilità psicoterapeutiche (1970, 1970). Lo psiche-soma sta anche alla base della creatività (1971): è col corpo vivo che l’individuo entra in contatto col mondo esterno in una forma personale, che successivamente diventerà la donazione di un significato personale al percepito. Il concetto di psiche-soma ha delle ricadute sulla teoria della tecnica psicoanalitica: Winnicott suggerisce all’analista di accostarsi ai bisogni non pensati del paziente con lo psiche-soma e non con la conoscenza intellettuale delle teorie (1956). Egli pone dunque l’accento sulla necessità che l’analista condivida l’esperienza somatica ed emotiva come primo passo verso l’evoluzione della pensabilità. Per comprendere meglio le origini dell’Holding di Winnicott bisogna concentrarsi molto sulla sua teoria dello stato di non integrazione e all’epoca della vita del bambino prima che l’Io sia definito. Non c’è un Io coeso, solo momenti separati di percezione dell’Io. Questi momenti non hanno chiare connessioni fra loro, ci sono spazi vuoti nell’organizzazione del bambino- spazi vuoti di non significato- all’interno dei quali il bambino non ha un chiaro senso di orientamento. Quindi il pericolo sempre presente è quello di cadere attraverso questi spazi vuoti in uno spazio non organizzato (caderci per sempre) e l’angoscia impensabile sarebbe allora la paura impensabile di questa catastrofe imminente. Ciò che protegge il bambino da una simile esperienza è il continuo holding materno:” Il rilassamento per il bambino-dice Winnicott- significa non percepire il bisogno di integrazione, dando per scontato la funzione ego-supportivo della madre” (Winnicott 1962). Il bisogno di integrazione è quindi spinto da una rottura percepita nell’holding materno. Ciò provoca una reazione d’emergenza della parte del bambino- un frenetico mettere insieme i pezzi- che quindi crea un’interruzione nel senso di “ continuità dell’essere” del bambino. Questo concetto Winnicottiano può essere compreso usando una metafora semplice come quella di un guidatore dentro l’auto che nonostante ci siano dei banchi di nebbia conosce lo stesso la strada anche se al momento la sua visibilità è ridotta. Un bambino non ha dentro di sé una simile mappa stradale e quindi quando arriva la nebbia ha bisogno del supporto materno che le fa da mappa. Quando si ha un holding sufficientemente buona il bambino per usare una analogia è come un passeggero su un auto con un conducente fidato al volante. Si fida del conducente e quindi non c’è bisogno di integrare, di improvvisare un piano di emergenza perché c’è un sottofondo di fiducia. Quando un bambino cresce la funzione di holding del bambino cambia dal salvaguardare il tessuto della continuità dell’essere del bambino al mantenere/sostenere nel tempo il modo di essere in vita del bambino più rivolto all’oggetto. Qui l’holding iniziale, fisico/emotivo, darà luogo ad un holding metaforico/esistenziale e narcisistico, ovvero il fornire uno spazio psicologico che nasce dal fatto che il terapeuta è in grado di tollerare il sentimento che ci dice che non è stato fatto nessun lavoro analitico. Winnicott ci dice di essere ininterrottamente quello spazio umano in cui il paziente diventa integro. Il concetto di oggetto transizionale fornisce un ponte tra la regolazione effettuata dalla madre e la possibilità di autoregolazione, situandosi nell'area intermedia (spazio potenziale) tra l'illusione di essere tutt'uno con la madre e la consapevolezza di essere da lei separato, tra la concretezza del contatto e il rappresentare simbolicamente l'oggetto assente. Se tutto procede bene anche l’oggetto transizionale viene interiorizzato e diviene parte della struttura psichica del bambino con funzioni di autoregolazione e di conforto. L’esperienza del fenomeno transizionale e la “capacità di stare solo” possono essere considerati aspetti del processo di interiorizzazione della funzione materna di mantenere una situazione emotiva nel tempo. Nello spazio transizionale, la successiva tappa dell’holding, quindi Winnicott vede in questa terza area dell’esperienza l’ area tra la fantasia e la realtà, ovvero l’origine del simbolismo nel tempo. La capacità di essere solo, come lo sviluppo del fenomeno transizionale, implica l’interiorizzazione di una madre come ambiente che mantiene una situazione nel tempo. L’esperienza fondamentale che sta alla base dello stabilirsi della “capacità di essere solo” è “l’esperienza di essere solo, da infante e come bambino piccolo in presenza della madre” (Winnicott, 1958). Quindi per Winnicott la capacità di stare solo implica di aver acquisito nella propria mente lo strutturarsi di un ambiente di holding interno. Winnicott ha sostenuto nel suo scritto “la capacità di essere solo” (1965) che la capacità di restare solo (nella realtà esterna) è legata alla percezione di non essere mai solo (internamente). Il fondamento della “capacità di stare solo è l’esperienza di stare solo in presenza di qualcuno”. (!965) Nei suoi lavori Winnicott (1964,1969) sulla psicosomatica, dichiara che le origini dei disturbi psicosomatici siano da porsi alle origini della vita, quando il soggetto, che si trova in uno stato non integrato primario, come un quadro senza cornice, con una tendenza verso l’integrazione, a porre il quadro nella cornice psiche/pelle, dipende massicciamente dall’ambiente, e in particolare dalla madre. Talora questa per svariati motivi, non è in grado di favorire il raggiungimento dell’ “insediamento” della psiche nel soma, ovvero l’integrazione psico-somatica, derivandone la dissociazione tra psiche e soma del paziente psicosomatico: ovvero il bambino non può godere dell’unità psicosomatica dell’esperienza. Quindi ad un iniziale stato non integrato o meglio non differenziato tra psiche e soma, c’è una sincronia totale, un immersione completa con l’ambiente esterno, la madre, si passa progressivamente ad una desincronizzazione, in cui le esperienze parziali del soma si vanno man mano trasformando da “presentazioni” in “rappresentazioni” mentali, quali primo nucleo del pensiero, delle prime fantasie sostitutive, dei primi vissuti. E’ attraverso lo svolgersi di tali vicissitudini che la spiche si insedia nel soma, permettendo al bambino il riconoscimento dell’altro e dell’ambiente esterno, assieme all’acquisizione del senso di Sé, come entità distinta dal non-Sé. Egli dà così il via a quell’integrazione che permette l’individuazione e l’attualizzazione di strategie complesse, a difesa dell’ulteriore processo evolutivo. I passaggi evolutivi e trasformativi implicano sempre una dissociazione psiche-somatica, ma questa si risolve con la creazione di una ulteriore e sempre più nuova e si spera più matura integrazione psico-somatica. Se l’urto dissociativo, per varie cause, risulta troppo forte da contenere da parte dell’individuo si insatura una dissociazione cronica nell’individuo, che sarà a seconda del periodo che si manifesta e dell’intensità una dissociazione (un qualcosa che diventa un “non Me”) somatopsichica, quindi una mancanza di creazione di una struttura di integrazione psiche-soma o una scissione (elementi psichici incomunicabili fra loro, ma ognuno di loro è qualcosa dime, ma l’uno non riconosce l’altro) psicosomatica, cioè di una rottura delle vie comunicative, all’interno della struttura, tra psiche e soma. Vedremo nel corso del libro che proprio la differenza fra la dissociazione e la scissione rappresentano la fondamentale differenza fra funzionamento somatospichico e psicosomatico. Quindi possiamo dire che l’esperienza del Sé ha a che fare con la continuità dell’essere e le minacce ad essa. I pericoli posti dalle intrusioni della realtà esterna o da pressioni interne ingestibili potrebbero costituire degli impedimenti che interferiscono con la nascita della soggettività e con la realizzazione del Sé. Per Winnicott quindi la relazione tra mente e psiche-soma è un punto cruciale. Il suo modo di definire “Psiche” come l’elaborazione immaginativa di parti somatiche, di sentimenti e funzioni presuppone una vivacità fisica. Winnicott sostiene che l’individuo sano deve sentire il suo corpo come il fondamento del sé immaginativo. Egli chiama insediamento della psiche nel corpo, un processo che permette l’acquisizione di una relazione stretta e semplice tra la psiche e il corpo ed il funzionamento corporeo. Nella sanità dice Winnicott, la mente ascolta e collabora con il corpo e con i suoi oggetti. In situazioni in cui non riesce ad avvenire questa integrazione psicosomatica l’individuo è incapace di sentire il suo corpo come il fondamento del sé immaginativo. L’insediamento rimane bloccato.

Intelletto e Falso Sé.

All’inizio il neonato esiste in fusione con la madre ed attraverso di lei. In questa fase iniziale il volto della madre è uno specchio: il bambino non vede la madre ma se stesso. Il bambino, quindi, non esiste ancora come individuo separato, in grado di vedere il volto della madre. Può vedere nella madre solo se stesso. Un primo movimento verso l’esistenza individuale si ha quando il bambino dopo la fase nella quale il volto materno è uno specchio, si sente visto dalla madre. Winnicott così si esprime:” Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me di solito ciò che il lattante vede se stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e ciò che essa appare al bambino è in rapporto con ciò che essa scorge. Tutto questo è troppo facilmente dato per scontato (….) Posso chiarire il mio punto di vista andando subito al caso del lattante la cui madre riflette il proprio stato d’animo o, ancora peggio, la rigidità delle proprie difese. Molti lattanti tuttavia devono avere una lunga esperienza di non vedersi restituito ciò che essi danno. Guardano e non si vedono.” (Winnicott, 1971). Il lattante offre il suo volto alla madre; la madre glielo restituisce attraverso il modo in cui il volto del bambino le appare. Ciò presuppone che essa sia in grado dapprima di ricevere e contenere lo sguardo del lattante, e poi restituirlo. Come se lei dicesse” Eccoti, sei così come ti accolgo, come ti guardo con i miei occhi e il mio amore. Se essa è incapace o impossibilitata ad operare questa restituzione, la crescita del bambino trova un primo e serio inconveniente. La conseguenza è che in futuro il bambino cercherà di riavere dall’ambiente, attraverso rubare o altre azioni antisociali, qualcosa di sé. qualcosa che all’inizio era suo diritto ricevere e che gli fu negato. Se il comportamento della madre è appropriato, il bambino vede se stesso nella madre. La madre sufficientemente buona va incontro ai gesti agli sguardi spontanei del neonato e gli dà un senso, lo riconosce e lo accoglie come un’espressione dell’onnipotenza del bambino. Come se il bambino dicesse alla madre “ Guarda di che cosa sono capace”. Qui Kohut amplifica, come vedremo la portata dello sguardo materno che si dovrà anche riempire di profonda e sentita ammirazione. Immaginiamo un esempio dove il bambino butta con veemenza un giocattolo per terra, e la mamma inizia da qui un gioco che appassiona entrambi. Un gesto spontaneo, che esprime un movimento interiore della personalità dell’infante, viene accolta con gioia e diviene l’inizio di un gioco. Il ripetersi di situazioni di questo tipo protegge il vero sé; lo rifornisce di forza, ed anche di ammirazione se seguiamo Kohut, consentendogli in tal modo di consolidarsi, di acquisire sicurezza e di infondergli in questo modo il coraggio di esporsi. Invece la madre non sufficientemente buona si comporta in maniera differente. Per causa di un suo disagio, essa non è in grado di comprendere ammirare ed accogliere il gesto spontaneo del bambino, dandogli un senso, per esempio iniziando a giocare, oppure se il gesto è molto fisico, attraverso una contatto fisico, che darà una valenza di piacere al bambino. Ha luogo quindi al contrario un’inversione dei ruoli, la madre risponde al gesto del bambino con un proprio gesto. In breve chiede al bambino di soddisfare un proprio bisogno e non soddisfa il bisogno del bambino. E’ il suo bisogno di solito è che il suo bambino sia ubbidiente, buono, e che non dia disturbo. Questa madre chiede al figlio di condiscendere alle proprie esigenze, reprimendo ogni spontaneità. Nell’esempio del bambino che butta a terra il giocattolo, una madre non sufficientemente buona, potrebbe inquietarsi, arrabbiarsi, disperarsi, far capire al bambino che non si deve comportare così , che i giocattoli non devono essere buttati per terra, con il rischio di romperli. Il bisogno della madre è che il suo bambino non butti il giocattolo per terra e sia un “bravo” bambino. Il bisogno materna usurpa il bisogno del bambino.

L’uso che Winnicott fa della parola psiche merita una attenzione particolare, perché la distingue da altri usi di altri autori, solo apparentemente analoghi: per Winnicott la psiche è “elaborazione immaginativa di parti somatiche, sentimenti e funzioni ed è praticamente sinonimo di fantasia, realtà interna, e sé (self)” (J. Abram 1996). L'intelletto o mente rappresenta per Winnicott ciò che emerge in modo specifico dalla parte psichica dello psiche-soma. Il termine mind è usato da Winnicott in una accezione affatto diversa da quella in genere in uso nella psicoanalisi; per esempio è totalmente diversa dall’accezione bioniana. “Mente” (mind) è per Winnicott una difesa sofisticata che insorge precocemente come risultato del fallimento di una soddisfacente integrazione, collusione, o insediamento della psiche nel corpo. E’ per Winnicott l’espressione di una dissociazione nell’individuo, e descrive prevalentemente un funzionamento intellettuale in cui l’individuo sente la mente come una entità a se stante e non come parte integrata del suo senso di sé. Winnicott, come abbiamo visto, afferma che nei primissimi tempi di vita l’infante non distingue il sé dall’ambiente, questo vuol dire che il suo sé è l’ambiente. Il Se stesso viene visto “illusoriamente” nell’ambiente esterno, dando la possibilità di pensare che le cose esterne siano create da lui. E’ lui l’artefice del mondo. Man mano che l’ambiente urta con questo processo, farà si che si perda un pezzetto di illusione, e si avrà un insediamento della propria “soggettivazione”. Questo processo avviene con la creazione di quello che Winnicott chiama fenomeni ed oggetti transizionali. L’essere soggetti di se stessi è un processo faticoso e per niente scontato. Diventare soggetti pensanti di se stessi, significherà perdere la sicurezza e la prevedibilità della dipendenza assoluta dall’ambiente, che eravamo “allucinatoriamente” noi e, accettando l’imprevedibilità della costruzione, questa volta nostra, meno sicura, ma dove siamo autenticamente noi stessi. Questo processo è bene tenderlo fino al suo raggiungimento pieno, ma che non sarà mai possibile essere totalmente liberi dall’ambiente esterno, anzi l’essere totalmente staccati dalla realtà esterna è indice come abbiamo visto di uno stato di delirio o al meglio di “allucinosi”. Questo non essere mai totalmente liberi, non si fraintenda, è indice di salute, dove essa consentirà il poter cercare sempre nuove soluzioni ed accomodamenti fra la nostra psiche interna e l’ ambiente esterno. Quando la realtà esterna entra senza una possibilità di un nostro lavoro mentale su di essa, che la renderebbe più aderente e familiare, o come dice Bion “digeribile”, a noi, sarà sempre traumatica, perché sfonda intrusivamente, con violenza, la nostra capacità psichica di elaborarla. Questo creerà forme di dissociazione a scopo difensivo di questi vissuti traumatici, che spesso rovinano e condizionano le nostre esistenze, se non si riescono ad integrarli nella continuità esistenziale del nostro Sé. Per capire meglio il processo dell’Intelletto che si sostituisce alla funzione materna/ambiente cerchiamo di partire da un assunto imprescindibile: Il Sé dell’infante si costituisce attraverso gli occhi e lo sguardo della madre. Da come il bambino percepisce il come la madre lo vede, questa visione si trasforma onnipotentemente in come lui si vede. Cioè a quasi la totale illusione onnipotente che la realtà esterna sia il prodotto di se stesso. Partendo da questo possiamo dire che il bambino che non ha un adeguato rispecchiamento da parte dello sguardo materno dei bisogni corporei ed emozionali, non riesce a fare quel processo di “Integrazione” della psiche nel soma. Ovvero a poter immaginare attraverso la sua psiche i suoi processi interni corporei-emozionali. Questo può accadere se prima la madre riesce ad immaginare e a rispecchiare questi processi del bambino e proiettarglieli nel grande schermo del suo viso e del suo sguardo, e farglieli ascoltare attraverso i suoi suoni e prosodia delle sue parole. Il neonato diventa il Sé vedendosi nello sguardo materno che rispecchia i contenuti del suo Sé. Se la madre non è in grado di fare questo lascerà questi bisogni di rispecchiamento e contenimento di eventi corporei emozionali, al bambino e si formeranno aree all’interno del suo Sé, a lui “impensabili”. Il bambino per evitare il terrore che queste aree lo possano sopraffare, diventa adesivo all’ambiente-madre, per come esso lo desidera e come lo immagina che lo vorrebbe per soddisfare i propri bisogni inconsci e non quelli dell’infante. Quindi il bambino guarda sempre, imitandolo, lo sguardo della madre, ed impara ciò che lei vuole per accettarlo. Questo processo creerà una costruzione di un “Intelletto-mente” adesivo alla madre con la funzione di sostituirla, e non legato ad un processo di acquisizione immaginativa aderente alla funzioni ed espressioni emozionali corporee che sarebbero dovute essere contenute e rispecchiate nello sguardo della madre-ambiente. Quindi un Intelletto-mente non adesivo alle proprie esperienze corporee ma alle aspettative e desideri della madre. Invece l’Holding che sostiene adeguatamente permetterà al bambino e in analisi al paziente di abbandonare l’onnipotenza del Falso Sé. Dice Winnicott (1971):” Se avremo successo, metteremo il paziente nelle condizioni di poter abbandonare l’invulnerabilità e diventare una persona che soffre.” Invulnerabilità credo che si riferisca al suo concetto di Falso Sé, dove questa difesa si costruisce identificandosi più o meno totalmente o parzialmente a quello che lui chiama Mente o Intelletto, che è un sostituto onnipotente della cura materna che non viene ricevuta. Quindi l’individuo diventa il suo ambiente a discapito della sua soggettivazione. Questo con il rischio di o di costruirsi una propria realtà che prende il posto della realtà “vera” delirando in allucinazioni o meno gravemente che si costruisca un mondo in cui, visto che la nostra psiche non si è potuta ancora al copro, quindi non può sentire il mondo emozionale affettivo che è proprio lo stato del suo corpo. Vivendo quindi in un mondo come lo chiama Bion di “allucinosi” dove la realtà è priva di contato emozionale, dove vi sono solo oggetti esterni ed interni irreali in una realtà deprivata di ogni significato personale. Questo in termini più moderni, come abbiamo visto nel capitolo precedente, non vuol dire altro che il costrutto che oggi viene chiamato “alessitimia”. Da qui si capisce meglio come Winnicott (1971) intende quando parla di valore positivo del disturbo psicosomatico:” Ecco dunque il valore positivo del coinvolgimento somatico, l’individuo valorizza il potenziale legame psico-somatico. Per capire questo, bisogna ricordare che la difesa è organizzata non solo in termini di una scissione che protegge dall’annientamento, ma anche nei termini di una protezione dello psiche soma dalla fuga in una esistenza intellettualizzata, che ignorerebbero le richieste di una psiche costruita e mantenuta sulla base di un funzionamento somatico.” Alla frase di Winnicott “abbandonare l’invulnerabilità e diventare una persona che soffre” si può aggiungere, come dice lo stesso Winnicott “Viva” e come vedremo con Bion che sappia anche “Soffrire” che non è solo uno stato di sofferenza malevola, ma esprime che anche io “soffro” la gioia o il piacere come anche io “Soffro” la felicità o il piacere, cioè sono “Io” il soggetto e soffrente e/o gioioso. Sono il principale attore della mia vita. Questo significa per Winnicott l’essere “Vivi” e quindi integrati in uno spiche-soma funzionante, o per dirla con Bion, diventare ed essere il proprio “O”, come vedremo più avanti. Il processo di integrazione farà sorgere la psiche dell’individuo che avverrà attraverso questi processi: La conquista dell’integrazione è l’unità. Prima viene l’Io, che significa “tutto il resto è non me”. Poi viene “Io sono”” Io esisto”, Io accumulo esperienze e mi arricchisco ed ho un’interazione introiettiva e proiettiva con il “Non Me”, il mondo reale. Aggiungete a questo “Io sono visto e capito come esistente da qualcuno”; e aggiungete “Io ricevo di ritorno ( come un volto visto in uno specchio) la prova, di cui ho bisogno. Di essere stato riconosciuto come un essere”. Quando tutto va bene la pelle diventa il confine fra il me e il non me. In altre parole. La psiche è venuta a vivere nel soma ed è una vita psicosomatica individuale ha inizio. La sintomatologia di un certo tipo di malattia psico-somatica comporta un’accentuazione dell’interazione fra psiche e soma, accentuazione che funge da difesa contro la minaccia di una perdita dell’unità psicosomatica, o contro una forma di depersonalizzazione”. E’ giusto sottolineare che la maggior parte delle non integrazioni di cui parla Winnicott noi in questo lavoro le chiameremo non disturbi psicosomatici ma somatopsichici con una netta differenza dalle prime, che sottolineeremo nel corso del libro. Winnicott, in “L’intelletto e il suo rapporto con lo psiche-soma” (1949), tratta della mancata integrazione “psiche-soma” che si verifica fin dalle origini nella vita di un individuo quando nel rapporto madre bambino (dove il corpo è il principale mezzo di comunicazione) vi sono squilibri tra aspetti somatici e psichici per carenza materna. In tal caso: la parte psichica dell’unità psicosomatica” del bambino è spinta ad assumere funzioni materne, causando precocità e ipertrofia intellettiva e psichica, e incapacità di contatto ai propri bisogni profondi. Per Winnicott lo scopo della malattia psicosomatica è proprio il ritiro della “psiche dall’intelletto per ricondurla alla sua associazione intima originale con il soma”(1949). In tal modo, secondo Macchia, si riporta la persona a contatto con i bisogni emotivi dissociati, a quello scollamento delle funzioni cognitive o psichiche da quelle emotive : “Il sintomo somatico favorisce l’opportunità di riaccostarsi ai bisogni emotivi del bambino e del paziente, sollecitando la necessità di una ri-modulazione della qualità affettiva della relazione”. A tal proposito Renata Gaddini (1980) considera i disturbi psicosomatici alla luce delle idee di Winnicott in questa maniera:” È appunto guardando al processo maturativo dall'altra parte del telescopio, rispetto a quella in cui siamo adusi guardare come analisti, che ho scoperto che i bambini che soffrono di disturbi o malattie psicosomatiche non raggiungono mai la creazione di un vero oggetto transizionale. Ciò significa, per me, che essi non hanno raggiunto la “fase del preoccuparsi” il tempo in cui la fusione con la madre è diventata parte del mondo interno. Nella realtà, questo è il momento in cui sta avendo luogo la separazione (*) In tale stadio, che nel normale processo di crescita si svolge intorno ai 7-9-10 mesi, i bambini, si sa, possono arrivare a creare evocativamente, nello spazio potenziale lasciato vuoto da separazioni e perdite, una rappresentazione simbolica della unione (o riunione, come preferisce Winnicott, riferendosi al processo che ha luogo nel mondo interno, dopo la separazione alla nascita). Questa rappresentazione si basa su sensazioni, per la più parte olfattive e tattili, che il bambino è andato accumulando in base a materiali diversi (indumenti, coperte, federe o pannolini) che hanno costituito parte dei contatti con la madre nei primi tempi. Sappiamo il valore talismanico che i bambini conferiscono a un tale oggetto, nel tentativo di proteggersi dalle angosce del crescere. Perché i bambini che sistematizzano i loro disturbi “somatici” non hanno un oggetto transizionale? Perché essi hanno la malattia (o il sintomo) al suo posto. La malattia, e la cura fisica che essa comporta, colma lo spazio tra madre e bambino, che non rimane mai vuoto con il sintomo somatico, in quanto ha luogo, con l'impegno corporeo, una operazione di negazione massiva di separazione, un vero S.O.S. da parte del bambino, su cui incombono angosce di disintegrazione ed agonie primarie.” Continua la Gaddini (1980):” Se si tenta di classificare le malattie psicosomatiche secondo la teoria del processo maturativo, come suggerisce Winnicott , ci si trova a guardare agli stati primari, e a scorgervi, proprio all'inizio, uno stato primitivo, molto vicino alla nascita, che tende verso l'integrazione. Se la madre ha la capacità di adattarsi al bambino, in un modo tale da riuscire ad appoggiare l'incipiente rapporto con la realtà che il bambino si va costruendo e sa offrirgli un senso del reale nella sua condizione di dipendenza – andando incontro alla dipendenza del bambino – alla fine, ne deriverà la capacità di integrarsi, mente nel corpo. Se però la madre viene meno, essa lascia in certo modo il suo bambino scoperto, privo degli elementi essenziali per le operazioni del processo maturativo. Il passo successivo alla “integrazione psicosomatica” cioè al raggiungere, da parte del bambino, un insediamento della sua psiche nel soma, è, per Winnicott, quello che permette di godere di una buona esperienza unitaria dello psiche-soma. Questa operazione è parte della naturale tendenza verso l'integrazione. I primi passi in questa integrazione – che vanno formando nel primo mese un mondo interno ricco e protettivo – sono: a) imparare a conoscersi per gradi, fin dal momento della nascita; b) adeguate reciprocità e comunicazioni durante i pasti e al momento di addormentarsi; c) cure adeguate, che contengono una continuità con la preoccupazione materna primaria (o con la reverie): in particolare, una continuità nei ritmi e nelle cadenze, così da costituire, senza cesura, una continuazione con la vita prenatale. Facendo riferimento a Winnicott, ho cercato di dimostrare che le malattie psicosomatiche possono essere classificate in base ai processi maturativi. Gli individui possono fare solo quei sintomi che corrispondono al livello di sviluppo da loro raggiunto. I bambini preverbali (primi mesi, primo anno) possono fare solo sintomi fisici, perché il loro solo modo di esprimersi è attraverso il corpo, dal momento che non dispongono ancora di un linguaggio o, quanto meno, non ne dispongono al punto di poterne fare uso per esprimere tensioni ed angosce”.

Wilfred Bion

Nei suoi primi lavori Bion, nel tentativo di descrivere la natura e l’origine degli assunti di base fenomeni psicotici gruppali, formula una ipotesi (1961) in cui descrive l’esistenza di fenomeni “protomentali”, che troveranno la loro espressione negli stati emotivi. Egli definisce il sistema protomentali come qualcosa in cui il fisico e lo psicologico o mentale si trovano in uno stato indifferenziato, si capisce perché, quando da questo prende origine un sentimento di angoscia, esso può manifestarsi tanto in forma fisica che in quella psicologica. Si tratterebbe in sostanza di una indifferenziazione iniziale tra fisico e psichico (concettualmente questo è molto simile allo stato non integrato psiche soma di Winnicott). Diverse teorie psicoanalitiche del passato hanno esplicitato le funzioni regolatrici dei cosiddetti oggetti interni (Klein, Fairbairn, Kernberg, Balint, ecc). Bion con la sua teoria sulla funzione alfa e della reverie materna quello che più si approssima ad un modello di regolazione e di interiorizzazione della regolazione. Anche se in un certo modo accadeva ad altri autori psicoanalitici che hanno dato importanza più alla relazione che alle pulsioni, manca quella caratteristica di reciprocità che caratterizza invece i modelli psicoanalitici più recenti, in particolare quelli legati alle teorie dell' Infant Research. Anche Bion sembra convergere con Winnicott quando affida la possibilità evolutive allo sviluppo di una funzione psichica (la funzione alfa) deputata a convertire i dati sensoriali (protomentali-elementi Beta) in elementi Alfa . Gli elementi alfa sono chiaramente psichicità. Mentre il “pensiero” del corpo è vita non ancora ripresa dalla psiche, è quell’essere-sentire che scaturisce dalla visceralità e datità biologica. Gli elementi beta sarebbero quindi quell’esperienza originaria che, legata alla corporeità, si offre al soggetto, ma esigendo per la sua crescita il passaggio ad una forma organizzata, “saputa”. Lo sviluppo della funzione alfa è interamente affidata alle vicende delle primitive relazioni madre-bambino, dove un ruolo fondamentale viene affidato alla funzione di Reverie materna, descritta da Bion come quella capacità da parte della madre di trattare i dati sensoriali inelaborabili dalla coscienza rudimentale del bambino. La reverie è per Bion l'organo recettore della madre della massa di dati sensoriali sul proprio Sé raccolti dalla coscienza del neonato che, proprio perché non in grado di elaborarli da solo evacua (attraverso l'uso della identificazione proiettiva) dentro la madre affinché li digerisca e li restituisca al bambino carichi di senso, e quindi pensabili: il che conferisce ad essi qualità emotive positive. Se la proiezione delle angosce intollerabili non viene accolta dalla madre, il neonato sente che la sua sensazione di stare per morire (piuttosto che venire metabolizzata in sua vece) viene spogliata del suo peculiare significato: reintroietta non una paura di morire resa tollerabile ma un “terrore senza nome. Il fenomeno psicosomatico sarebbe allora una particolare forma di acting, di proiezione “intrasomatica”, in quanto le impressioni sensoriali e/o le esperienze emozionali primitive, non potendo essere mentalizzate vengono proiettate sul corpo. Dato che il bambino nella sua mente non si è ancore differenziato dal corpo, mente e corpo possono funzionare come un tutt'uno e il pensiero rimane concreto e autosensuale. Per Bion la “funzione alfa” trasforma le grezze “impressioni sensoriali collegate all’esperienza emotiva” in elementi alfa che possono essere collegati per formare sogni-pensieri carichi di affetti. Un sogno-pensiero presenta un problema emotivo col quale l’individuo si deve confrontare, fornendo così lo stimolo per lo sviluppo della capacità di sognare (che è sinonimo di pensiero inconscio). Bion (1971)“I [sogni] – pensieri richiedono un apparato che li tratti... il pensare [sognare] deve essere chiamato in esistenza per trattare con i [sogni]-pensieri». In assenza della funzione alfa, come afferma Ogden (2017), (la propria o quella fornita da un’altra persona), un individuo non può sognare e quindi non può fare uso della (fare lavoro psicologico inconscio con la) propria esperienza emotiva vissuta, passata e presente. Conseguentemente, una persona incapace di sognare si trova bloccata in un mondo immutabile e senza fine riguardo a ciò che è. L’esperienza che non può essere sognata può aver avuto origine in un trauma – un’esperienza emotiva insopportabilmente dolorosa come la morte precoce di un genitore, la morte di un bambino, un combattimento militare, uno stupro o imprigionamento in un campo di sterminio. Ma un’esperienza che non può essere sognata può anche derivare da un “trauma intrapsichico” – l’esperienza di essere sopraffatto da una fantasia cosciente o inconscia. Quest’ultima forma di trauma può derivare dal fallimento della madre nel contenere adeguatamente il bambino e nel contenere le sue ansietà primitive, o da una fragilità psichica costituzionale che rende nell’infanzia e nell’adolescenza un individuo incapace di sognare la propria esperienza emotiva, anche con l’aiuto di una madre sufficientemente buona. L’esperienza che non può essere sognata – sia in conseguenza di forze prevalentemente esterne oppure intrapsichiche – rimane con l’individuo come “un sogno non sognato” in forme come disturbo psicosomatico, psicosi scissa, stati anaffettivi (McDougall, 1984), sacche di autismo, gravi perversioni e tossicodipendenze (Ogden 2017). Bion è sempre stato preoccupato della capacità della persona di comunicare ad altri l’ineffabile( cioè l’inarticolabile, l’indescrivibile) l’irrappresentabile. Come fa il neonato a comunicare alla madre la fame, la paura di morire, la solitudine o il terrore? Dalla madre il bambino interiorizza la capacità di formare delle “immagini” visive da protosensorialità e protoemozioni e riesce così a personalizzare/soggettivare la realtà, ad assegnargli un significato personale. Come le cellule del corpo, anche quelle della spiche si devono costantemente rigenerare. La funzione che presiede a questa attività è la funzione alfa, la capacità di trasformare sensorialità per dare immagini emotivamente significative, non percezioni pure. Il sé non è conquistato una volta per tutte. Il sognare ripara e costruisce la pelle psichica, la pellicola di significato che ci protegge dagli urti della realtà. Il contributo più importante di Bion, dice Ferro (2013) è l’aver dichiarato l’esistenza di un “pensiero onirico della veglia”. C’è un sogno che si svolge di continuo nella nostra mente. Esso è la risultante dei processi mentali che avvengono sotto la funzione Alfa che opera, come abbiamo visto, su tutti i dati percettivo-sensoriali. Le senso-percezioni, chiamate da Bion elementi Beta vengono trasformati dalla funzione Alfa in elementi alfa, ovvero in pittogrammi emotivi che istante dopo istante sincretizzano in una immagine tutti gli elementi beta presenti, non ha importanza da dove essi provengono, dal soma, dai sensi, dalla nostra psiche da quella altrui, dall’ambiente. Strumento principe per l’attivazione della funzione alfa nell’analista , ci dice Bion, è la Reverie. La reverie va distinta in vari modi: a flash quando è istantanea, a lungometraggio quando nasce da una connessione di vari momenti di reverie, oltre quella continua attività di lavoro assuntivo/trasformativo fatto al di fuori da ogni consapevolezza. La reverie, dice Ferro (2013) è differente dalla metafora che presuppone chiarezza e pertinenza al tema trattato. La reverie invece nasce a monte dell’interpretazione, mentre la metafora di solito la completa, in qualche modo la ispira, la suggerisce. E’ da essa che l’interpretazione trae ispirazione. E’ un’immagine che si crea nella mente (spontaneamente e non su commissione) e la cui difficoltà sta nell’organizzarla in una comunicazione pertinente, chiarificatrice, che non è frutto di un’enciclopedia(cioè di una raccolta di metafore passibili) ma è creata lì per la prima volta, quasi uno spezzone piccolo di sogno, anzi decisamente un pittogramma visivo, frutto di quel pensiero onirico della veglia continuamente prodotto, la metafora interviene in uno stato meno nascente, più a valle quando siamo già ai derivati narrativi, è un allargamento della narrazione. Il paziente di Bion deve essere contenuto analiticamente ed essere così in grado di patire, e non sopportare con determinazione ma ciecamente, la sofferenza delle esperienze emozionali. Ogni volta dice Bion che il paziente percepisce (patisce) la propria sofferenza emotiva, si ricongiunge al suo Sé più profondo ed evolve. Se si dovesse riassumere l’essenza delle novità di Bion, Grotstein (2007) direbbe che ha portato la psicoanalisi positivistica di Freud e della Klein nei territori nuovi ed incogniti dell’incertezza, affrancandola dai lacci e dalla gabbia del linguaggio verbale per condurla nel campo al di là e al di qua del linguaggio. In questo senso Bion propone uno schema unidirezionale, che va da beta verso alfa. Grotstein (2000) invece afferma che il bambino nasce con una funzione alfa rudimentale ereditata con cui è preparato a generare comunicazioni pre-lessicali e a ricevere comunicazioni lessicali prosodiche da parte della madre Quindi per Grotstein non vi è più un movimento lineare da beta ad alfa, bensì un perpetuo oscillare beta<>alfa senza che vi sia un punto di arrivo. Grotstein si domanda infine, se esista davvero una “trasformazione” da beta ad alfa ma che siamo noi a modificare di continuo il nostro modo di percepire beta ed alfa. Questo pensiero è in linea con i riferimenti teorici di questo libro ed anche con il pensiero della Bucci che parla non di trasformazioni, che presupporrebbero dei passaggi un po’ magici ma di connessioni continue in varie direzioni. Lei parla non di beta ma di schemi subsimbolici che si connettono con gli schemi di pensiero simbolici prima non verbali simbolici (le immagini) e poi verbali simbolici (se cambiamo in linguaggio bioniano elemento beta> pittogrammi affettivi> Funzione alfa). Quindi sarebbe forse meglio parlare di connessioni continue bidirezionali continue e non di trasformazioni a moto rigido lineari. L’idea di contenitore-contenuto di Bion si rivolge non a ciò che pensiamo ma al modo in cui pensiamo cioè a come elaboriamo l’esperienza vissuta e a cosa avviene psichicamente quando non siamo in grado di fare lavoro psicologico con quell’esperienza. Il contenitore non è una cosa, ma un processo. E’ la capacità di fare lavoro psicologico inconscio del sognare, operando in accordo con la capacità del pensare come in un sogno preconscio (reverie) (Bion 1978). Il contenitore-contenuto coinvolge un’interazione dinamica tra pensieri onirici (il contenuto) e la capacità di sognare (il contenitore). Contenitore e contenuto sono fortemente, muscolarmente, in tensione l’uno con l’altro, coesistendo in uno stato di mutua dipendenza. Possiamo presupporre che per far si che questa funzione alfa che si manifesta attraverso il rapporto contenitore-contenuto possa accadere se si riesce a creare quello spazio transizionale di cui parla Winnicott. Un’area di mezzo (spazio transizionale) tra il soggetto e l’oggetto. Nello stato di holding, c’è una simbiosi dove soggetto e oggetto sono pressoché la stessa cosa, o vengono vissuti come se fossero la stessa cosa, quindi non danno modo affinché si formi quello spazio sufficiente affinché si formi a quell’area intermedia transizionale, che separa e unisce, il soggetto e l’oggetto, per far sì che si instauri quella tensione dialettica (funzione alfa) fra il contenitore e il contenuto.

Le trasformazioni dell’esperienza.

In “trasformazioni” Bion avanza un modello di funzionamento mentale di tipo “catastrofico”, secondo cui lo sviluppo è suscettibile di salti, di ristrutturazioni radicali e complessive, peraltro nella direzione tanto della crescita quanto del crollo. In questo libro viene introdotto il concetto di “O” e di “trasformazioni in O”, dove O rappresenta l’area del vissuto senza pensatore, del corpo vivente antecedente la soggettività. In O il soggetto pensante non è ancora sorto, bensì ha da venire, ovvero è a un tempo pervaso e superato dalle trasformazioni dell’esperienza. Così O risulta essere la sede di una psichicità indifferenziata, collocata tra mente e corpo, tra soggetto ed oggetto, e non a torto = è definita da Bion “verità assoluta”, perché si da anteriormente ad ogni pensatore ed è presupposta da ogni atto di pensiero. Quindi l’esperienza emozionale che deriva da O da cui consistono gli elementi beta , risulta già da un vissuto anteriore alla parola, quindi di per sé comunicabile solo a prezzo di un lavoro psichico di trasformazione. O quindi è una sostanza ineffabile nel senso che precede ma anche eccede la parola e dunque il potere contenitivo del pensiero. Si tratta non di elementi di metafisica, ma di vissuti intimamente legati ed espressi nella corporeità, proprio per l’intensità con cui si manifestano, ma la momento in cui vengono provati, essi risultano insieme indescrivibili. In tali momenti, l’individuo è tutt’uno con le sensazioni ed emozioni che lo abitano. Quando poi voglia esprimerle, inevitabilmente dovrà trasformarle, cioè ritradurle- ciò che Bion chiama “trasformazioni da O a K”, dove K sta per “conoscenza”- senza che alcuna parola (memoria) possa eguagliare (cioè restituire appieno) l’esperienza. Quindi in tal senso la tesi di Bion non va oltre il riconoscimento che il vissuto emozionale è ben diverso dalle “parole per dirlo”, non solo, e che esprimerlo inevitabilmente provoca il distacco: non si è più fusi con l’esperienza- di cui si deve dire che non la si ha ma la si è- in quanto essa ci costituisce e definisce. La corporeità insieme all’esperienza che abbiamo continuamente di essa, diventa così in se stessa ineffabile: nella misura in cui vengono messi in forma il pensiero e la parola di quell’insieme di sensazioni ed emozioni con cui si offre a noi, il corpo non è più quello che era prima. Questo gap è però per Bion solo fenomenologico- che rimanda al corpo vissuto e corpo pensato- non certo ontologico, in quanto è dal punto di vista soggettivo, della nostra capacità di contenere i pensieri, che il corpo si da come “altro”- ricordo, affetto, parola- di O, una condizione che precede la soggettività ma che chiede continuamente, per sua stessa natura, di essere fatta pensiero. Ci può essere odio e paura per le trasformazioni in K perché esse possono avere come esito un avvicinamento sempre maggiore a divenire O, un sintonizzarsi (at-one-ment) con O. Un’interpretazione può essere accettata in K, vale a dire conoscere qualcosa, ma può essere rifiutata in O, cioè divenire qualcosa. Si può supporre che spesso la conoscenza produca una difesa, contro il divenire . E’ questo quello che Bion chiama –K.

L’esperienza di “O”.

Cos’è O? O è l’origine come nell’esempio geometrico degli assi cartesiani. Non significa zero, che indicherebbe il vuoto, perché invece Bion si riferisce ad un pieno vivo e attivo: la realtà esterna, se guardiamo fuori di noi; la realtà interna, se invece guardiamo dentro di noi. O è la causa di ciò che siamo e di ciò che proviamo anche se non riusciamo mai a venirne a capo perché la realtà, sia interna che esterna è in sé inconoscibile. Che possiamo sapere del gioco di forze quantiche e particelle elementari che sono la realtà o del gioco di attivazione di cellule e sostanze chimiche che sono le nostre sensazioni e emozioni? Possiamo solo sentirne e cercar di riconoscerne gli effetti su di noi – o dentro di noi: fare appunto esperienza di O. Essa non è quindi l’esperienza della realtà in sé, interna od esterna, che sarebbe impossibile - se non evidentemente nelle varie forme del delirio; ma l’esperienza del mondo di sensazioni, percezioni ed emozioni che si attivano a contatto con la realtà e che ci attivano nei nostri pensieri, sentimenti, motivazioni e comportamenti, il nostro mondo soggettivo. Secondo Bion, di fronte ad O, si possono assumere sostanzialmente tre atteggiamenti: conoscere O, cioè cercare di sapere il più possibile su O senza viverlo, un modo di difendersi da un’esperienza che fa paura; essere in rivalità con O – cioè convincersi che c’è qualcosa di meglio – una realtà superiore - che affrontare il dolore dell’esperienza ed infine diventare O che significa invece cercare di vivere le esperienze per quelle che sono, accogliendo le emozioni, tollerandole, elaborandole, dando loro un significato, riconoscendole nella nostra storia, nella nostra vita: diventare quello che si è. O non si può conoscere ma se ne può fare esperienza, esperienza che diventa il vertice del lavoro analitico ed il suo scopo. Essere all’unisono con O, at-one-ment, significa anzitutto riconoscere la propria esperienza emotiva, potersi ritrovare con se stesso, essere uno con se stesso. In altre parole, lo scopo del lavoro analitico diventa “presentare il paziente a se stesso” in modo che il paziente possa riconoscersi – non solo conoscersi, che sarebbe una difesa – ed appunto diventare quello che è. Cosa significa la “O” di un'esperienza? Per Ogden (2017) Bion usa termini come cosa in se o “verità assoluta”, “realtà ultima” e “l'esperienza per veicolare un significato di ciò che ha in mente con O. Ma dal momento che sottolinea anche che O è inconoscibile, innominabile, oltre la comprensione umana, questi termini sono fuorvianti e contrari alla natura di O. Per Bion O non è una realtà dietro a quella comprensibile ma si riferisce a ciò che la realtà è, una realtà che non creiamo, una realtà che ci precede e ci segue, dove siamo sempre immersi volente o nolente, indipendente da qualsiasi atto umano di conoscere, percepire e comprendere. Per Ogden la lettura di Bion consta di due tipi di messaggio che Bion invia al lettore. Il Bion di Apprendere dall'esperienza (1962) da come istruzione di lettura al lettore che esso deve liberarsi di ciò che pensava di sapere in modo da entrare in un ciclo progressivo di conoscenza e non conoscenza. Al contrario le istruzioni del Bion di Attenzione ed interpretazione si concentrano sul “non tener conto” ciò che sta dicendo, perché tale aderenza alle affermazioni sull'esperienza impediscono l'accesso del lettore agli eventi reali (la O dell'esperienza) della lettura. L'esperienza di diventare l' O si può capire comprendendo la differenza di tra il ricordare un'esperienza (ricordare un'esperienza infantile per esempio di paura o terrore) o divenire l' O di quell'esperienza cioè divenire un'esperienza congelante di paura/terrore. Per Grotstein (2010) Bion sostiene a suo avviso che l'elemento Beta non è O ma ne è il discendente protoemozionale: l'elemento beta è l'impressione emotivo sensoriale di O, il fantasma di O. Cioè rappresentano l'impressione sensoriale che si crea tra l'intersezione di O con i recettori emotivi. Quindi la differenza più rilevante, prosegue Grotstein, tra elemento beta e l'elemento alfa è che il primo connota la dimensione impersonale di O, mentre il secondo indica che il soggetto ha attribuito una dimensione personale all'esperienza e la rivendica personalmente come propria. Per Grotstein potrebbe non essere la funzione alfa a trasformare gli elementi beta in elementi alfa, quanto piuttosto siamo noi che ci trasformiamo. La percezione nostra dell'esperienza degli elementi alfa si trasforma, non si trasformano gli elementi beta stessi. Quindi la funzione alfa e/o il sognare ci forniscono un filtro protettivo soggettivo e personalizzato, così da essere protetti dal bagliore accecante di O mentre ci trasformiamo per poterlo esperire. Quindi siamo noi che ci trasformiamo e non la realtà di O. E l'osservatore di O che si trasforma, cioè diventa trasformato, essendo in grado di esperire (sentire) la verità delle sue emozioni. Tutto quello che possiamo fare per non farci accecare da O e arricchirci da esso è trasformare in finzione la nostra percezione, la nostra esperienza di O. Questo è il processo di sognare. Io soggetto modifico la trascrizione dell'esperienza ricevuta da O con il mio mettere insieme onirico, cioè producendo il sogno. Quindi seguendo Grotstein le trasformazioni per Bion sono in O, di O e da O. Ovvero l'analista diventa il contenitore delle proiezioni del paziente. Dapprima è soggetto ad una trasformazione in O per corrispondere all' O del paziente (il sintomo); poi trasforma la sua esperienza di O in K (conoscenza) la conoscenza riguardo ad O e proveniente da O, e la comunica all'analizzando sotto forma di interpretazione. Bion (1970) ci dice che l'individuo sano deve prima tollerare la frustrazione per contemplare e conservare l'esperienza dell'oggetto necessario in quanto “non cosa”. Tale assenza diventa il contenitore delle idee emergenti. La mancata capacità di tollerare la frustrazione determina la trasformazione della non-cosa in un oggetto interno concreto. La differenza è tra la “non saturazione” che porta alla realizzazione, per via di riempimento ad opera di idee spontanee, e la “saturazione” che sfocia nell'incapacità di pensare e generare idee. Bion si esprime in questi termini (1970) “I pazienti per i quali mi sento spinto a formulare teorie, esperimentano il dolore ma non lo soffrono”. Si potrebbe dire che questi sono quel dolore, mentre soggettivamente non ne sanno., cioè non lo vivono come cosa propria e quindi non lo patiscono. Sperimenta obiettivamente quel dolore, ma non lo vive come cosa sua; egli è quel dolore, proprio per non soffrirlo”. L'O è l'esperienza stessa, prima di poterle pensare ed esprimere le emozioni di O, l'individuo è quella paura, è quella angoscia, ecc. Se il terapeuta prova un emozione per esempio un vero sentimento di paura, di terrore per esempio di essere ucciso ecc. si sintonizza diventano l’emozione di uno stato agonico primitivo del paziente, in seduta, o al limite portandosela anche fuori dalla seduta, in quel momento come dice Ogden l’analista realizza il suo essere disponibile a sognare il sogno non sognato del paziente. E’ questo per Bion “diventare l’O del paziente”, oppure permettere all’O della seduta di evolvere, ed andare oltre l’identificazione conscia, la comprensione razionale e la mera analisi dei fatti. In breve seguendo Grotstein (2007) possiamo dire che nella trasformazione in O succede questo: l’analista quando riceve le proiezioni del paziente, che inizialmente sono equiparate agli elementi beta non elaborati, all’ignoto e all’inconoscibile, è in grado di contenerle, cioè di subire una trasformazione in O, e di trasformarle in “K” ( conoscenza delle sue emozioni). La fonte della trasformazione dell’analista scaturisce dall’interno del suo repertorio di esperienze ed emozioni, che egli cerca di far corrispondere a quelle dell’analizzando e “diventa” l’O (la verità ignota e inconoscibile) della seduta. Grotstein suggerisce che questa procedura di Bion possa essere intesa nel senso che l’analista deve attivare la propria capacità di simulare l’esperienza del paziente e diventare quella esperienza quanto più compiutamente possibile. Poi Grotstein a suffragio della sua idea mette in campo le parole di Damasio: “ Le configurazioni neurali e le immagini mentali corrispondenti di oggetti e di eventi esterni al cervello, sono creazioni cerebrali legate alla realtà che ne induce la comparsa, e non immagini speculari passive che riflettono quella realtà”. Non esiste, quindi, in questa visione bioniana, una psicoanalisi che sia centrata solo sul paziente (una psicoanalisi del transfert) o esclusivamente sull’analista (una psicoanalisi sul controtransfert) ma esiste una psicoanalisi centrata sulla relazione, sul campo , e su tutto quanto avviene tra paziente ed analista. Per questo si può dire che la psicoanalisi di “O” non è la psicoanalisi di “K”, cioè la conoscenza analitica, dell’emisfero sinistro più razionale, anzi K può costituirsi se viene esagerato nel suo uso, come uno dei principali ostacoli allo svolgersi del processo psicoanalitico, per questo la “O” nel transfert non può essere indagata (interpretazione di transfert), al limite si può diventare la “O” del transfert. L’attenzione prevalente del terapeuta per la realtà esterna per i fatti concreti senza, diciamo con Ferro “alfabetizzarli” di tessuto psichico può essere visto anche come un modo per evitare di fare i conti con l’emozionalità del campo analitico nel qui ed ora. Possiamo pensare che il sogno possa essere una delle prime forme di alfabetizzazione di O (il sogno verrà trattato in maniera più esaustiva nel cap.4). Il sogno incubo forse riesce ad affacciarsi sul protomentale di O, è un abbozzo embrionale di mentalizzazione dell’impensabile o di ciò che è ancora appena al di là del limite di pensabilità. Quando si sviluppa un gradiente minimo di possibilità di rappresentazione si dà allora luogo ai sogni traumatici, quelli che Kohut chiama i sogni sullo stato del Sé. Fino ad arrivare sempre per Kohut ai sogni simbolici, che sono in grado in senso intrapsichico di drammatizzare il funzionamento psichico del sognatore, e in senso transpersonale, riescono a fotografare invece e a monitorare il funzionamento della coppia analitica e dei suoi movimenti relazionali.

VERITÀ, SENSI E REALTÀ PSICHICA

Bion (1965, 1970) riteneva che la mente avesse bisogno della verità per crescere, allo stesso modo in cui il corpo ha bisogno di nutrimento fisico. Tuttavia le domande su cosa sia la verità, come la si raggiunga e come si capisca di averla raggiunta, e se sia mai possibile fare qualcosa di più che «avvicinarsi» alla verità psichica, rimangono questioni invero molto complesse (Levine, 2016). Gli oggetti della psicoanalisi – le emozioni, gli stati mentali, l’inconscio – sono qualità psichiche. Ma come tali sono ineffabili e non accessibili alla percezione per mezzo dei sensi (Bion, 1970). Si deve fornire contenuto a ciò che viene esperito solo in forma non rappresentabile fosse un compito fondamentale mentale dell’apparato psichico, e il termine «contenuto» implica ideazione e linguaggio. Tuttavia il linguaggio si dimostrerà sempre in qualche misura, inadeguato all’impresa. Nell’analisi ci troviamo di fronte alla necessità di fare comunicazione su un’esperienza che è, per definizione, impossibile da tradurre pienamente in parole. C’è sempre un divario che offre e spesso richiede la possibilità di essere riempito con qualcosa di nuovo. Molti degli ultimi lavori di Bion, dal 1970 in poi, si concentrano sul problema strutturale di come la verità delle qualità psichiche possa essere distinta e in che misura quella verità possa arrivare a essere conosciuta. In Attenzione e interpretazione, Bion sosteneva che l’indagine psicoanalitica dipendesse dal riconoscimento e dall’esplorazione di un tipo di esperienza che non è propria dei sensi. Mentre un medico può osservare (vedere) l’itterizia di un paziente, sentire (toccare) il suo battito irregolare, o ritrarsi davanti al fetore (olfatto) di una ferita infetta, «le realizzazioni con le quali ha a che fare l’analista non possono essere né viste né toccate: l’angoscia non ha né forma, né colore, né odore, né suono» (Bion,1970). Ovviamente l’angoscia può produrre cambiamenti fisiologici osservabili, come battito o respiro accelerati, sudorazione ecc. Bion, tuttavia, li considerava secondari rispetto alla cosa-in-sé, lo stato psichico. Anche se possono portarci a inferire la sua presenza, si presume che quell’inferenza o indicazione non siano la stessa cosa di osservare direttamente lo stato psichico. Questo limite è un limite della conoscenza o della «conoscenza sulle cose». Esso implica che, in relazione alle qualità psichiche e alla realtà psichica, ci sia sempre uno spazio enigmatico che esiste e che può essere riempito con una gamma di forme ideative adeguate, ma sempre approssimative. Quando tentiamo di percepire la realtà psichica, Bion (1970) suggerisce che, in luogo dei sensi e delle evidenze dedotte empiricamente, sia necessario affidarsi all’«intuito», che ha descritto come una funzione dell’io a-specifica e in gran parte inconscia, che permette all’analista in qualche modo di afferrare (intuire) spontaneamente la realtà psichica (la verità) della seduta, divenendo tutt’uno con essa (Ogden 2015).

LA REALTÀ PSICHICA E LE CATEGORIE DELL’ESPERIENZA

Seguendo la distinzione di Bion (1962, 1970) tra O (pura Esperienza esistenziale) e K(quella parte dell’Esperienza che si può conoscere e precisare in parole) e accettando il suo punto di vista, secondo cui l’Esperienza (O) in quanto tale non è mai pienamente conoscibile, ho proposto di adottare la convenzione di distinguere tra «Esperienza in maiuscolo» (O) ed «esperienza in minuscolo» (K, quella parte dell’Esperienza che può diventare conosciuta). Solo qualche parte dell’Esperienza maiuscola può entrare nell’ambito di ciò che può essere conosciuto (K) e dunque diventare parte della nostra esperienza «minuscola». Questo significa che le trasformazioni da O a K(T(O)->K) non sono necessariamente corrispondenze fisse biunivoche e non si muovono mai da un elemento pienamente saturo in un ambito a un elemento pienamente saturo in un altro ambito. (Levine, 2018). Che si stia parlando di percezione, memoria, sensazione somatica, movimento pulsionale, affetto o altre qualità psichiche, c’è sempre un divario o spazio potenziale, una qualche enigmatica, ambigua forma ideativo ancora incompleta che è potenzialmente emergente e specifica del contesto. In analisi, il contesto è il legame emotivo – o la sua assenza – nella coppia nel setting. Un altro modo di descrivere ciò può essere di dire che ogni stimolo – interno o esterno, pulsione, sensazione somatica o percezione – è una presenza o cosa, che produce un affetto o perturbazione sensoriale (turbolenza) che deve essere vincolato all’interno di un contenitore adeguato e/o trasformato. Questo processo di contenimento e trasformazione implica inevitabilmente la costruzione del significato. Quando ciò accade, la specifica forma finalizzata del prodotto di quella trasformazione non sarà completamente pre-determinata, ma sarà una tra molteplici possibilità che, per quanto adeguate e uniche, sono anche dipendenti dal contesto. LA PLASTICITÀ DEI PENSIERI Ci sono almeno tre differenti possibili categorie di contenitore (cioè mezzi di espressione) per l’iniziale turbolenza sensoria dell’Esperienza Maiuscola: parole, azioni e sensazioni (emozione). Benché la sensazione sia in parte psichica, in quanto può essere sentita e dunque rappresentata, non è mai pienamente satura o definita. Come l’azione, in quanto modalità di comunicazione o «dialetto» del discorso, la sensazione contiene sempre uno spazio potenziale che è enigmatico, ambiguo e quindi in una certa misura insaturo ed emergente, in attesa di completamento da parte della risposta di – o dell’interazione con – l’altro. Questo contrariamente all’ideazione basata sulle parole, che è estremamente più satura per quanto riguarda il significato. Dunque, la natura dell’azione e della sensazione come mezzi di comunicazione è più ambigua, enigmatica e non pienamente completa o emersa, rispetto a quella degli elementi ideazionali basati sulla parola. Poniamo i termini «emozionale” e «affetto/sensazione» in modo non equivalente o intercambiabile. Emozionale/affetto si riferirà a qualcosa che è almeno parzialmente «somatico» (reale e del corpo; proto- o pre-psichico e non ancora rappresentato psichicamente; una parte di O che non è ancora stata trasformata in K). La Sensazione/sentimento/affetto è psichica e rappresentata. (La sensazione è quella parte di O che è conoscibile o è diventata conosciuta a causa di una T(O)->K). Azione e sensazione attendono il proprio completamento tramite la partecipazione, il contributo e l’azione trasformativa dell’altro. Il quale deve non solo riceverle (tramite la rêverie), riconoscerle consciamente o inconsciamente e rispondere alla loro presenza all’interno della relazione come se fossero un segnale o una comunicazione (Roussillon, 2011), ma deve spesso aiutare a trasformare quel segnale in qualcosa di conoscibile o almeno tollerabile (Bion, 1962, 1970). Nel lavoro di Ferro (es. 1996) ci sono molti esempi in cui una serie di perturbazioni sensoriali non ancora mentalizzate (elementi beta) sono trasformate prima nei mattoni del pensiero (elementi alfa) e poi in possibili «dialetti» della narrazione – es. il dialetto della descrizione di un incontro con un amante, un ricordo dell’infanzia, un’associazione a un episodio in un film di cui il paziente ha appena sentito parlare, un sogno della notte precedente ecc. A proposito dell’inconscio dinamico (già formato ma represso), Ho tentato di mostrare come, per quanto riguarda il non ancora rappresentato, sia nella natura dell’Esperienza Maiuscola che, nel loro stato grezzo ed essenziale, pulsione, affetto/emozione, impulso, azione, sensazione somatica, e ricordo includano tutti un certo grado di incompletezza, un potenziale che non è ancora pienamente formato e che attende il completamento, e che quando questo atto trasformativo di costruzione e di completamento avviene, esso può assumere molte diverse possibili forme ideative. (Levine, 2018).

Pensiero di gruppo, Sincronicità ed evoluzioni in “O”.

Numerosi psicoterapisti di gruppo hanno evidenziato la presenza di un nucleo tematico, di fantasie comuni cui i membri del gruppo fanno riferimento e che è attivo a livello pre-conscio. Io ritengo, però, che sia possibile individuare due nuclei, disposti a livelli diversi: il primo corrisponde al tema ed alle fantasie preconsce della seduta (ciò di cui si parla) e può essere elaborato attraverso un processo conoscitivo (ciò che Bion chiama «trasformazione in K»); il secondo è invece composto da fantasie intense, ma prive di forma. Questo nucleo di secondo livello non può essere conosciuto direttamente, tuttavia può evolvere secondo quello che Bion (1970) ha definito «evoluzione in O», cioè evoluzione di ciò che è ignoto. La possibilità di «mettersi all’unisono con O» dei membri del gruppo è favorita da una serie di fattori. È necessario che il terapista nel corso della seduta si ponga all’unisono con il punto focale e ne promuova il prendere forma all’interno del gruppo.

Disposizione a stella

Claudio Neri (2002) “Per seguire le catene associative nel gruppo – come dicevo – il terapista deve tenere dietro agli interventi dei membri lungo un percorso a salti, andare da un ramo all’altro dell’albero delle associazioni, tornare a volte all’indietro rispetto alla corrente principale del discorso per raggiungere la precedente biforcazione: è da questa biforcazione, infatti, che frequentemente emergono nuovi sviluppi di senso. Il terapista, però, ha anche una seconda possibilità per seguire ciò che sta succedendo nel gruppo. È una modalità di ascolto che egli può adottare, alternandola alla prima oppure contemporaneamente. Per semplicità espositiva ipotizzerò che le due modalità di ascolto vengano utilizzate alternandole. Il terapista, dunque, può a tratti tralasciare di portare la propria attenzione sulla catena delle associazioni ed invece "immaginare con gli occhi della mente" che i diversi interventi delle persone presenti siano in rapporto ad un nucleo centrale. Questa seconda pratica di ascolto che chiamerò "cercare la disposizione a stella" corrisponde ad una modalità del terapista di percepire e organizzare mentalmente i dati che riceve dagli interventi dei membri del gruppo e più in generale da ciò che accade in seduta, valorizzando la categoria spazio, piuttosto che quella tempo. Mentre le catene associative corrispondono ad un tipo di percezione che dispone gli interventi lungo un filo temporale, la disposizione a stella trascura il tempo ("senza memoria e senza desiderio" dice Bion) e fa emergere lo spazio come dimensione organizzativa essenziale. Il vantaggio della percezione di tutti gli elementi della seduta nella sincronicità è dare maggiore rilevanza alla presenza di materiali meno organizzati, pre-verbali ed ultra-verbali, e ad intuizioni sparse e non coordinate. Un altro vantaggio è che permanendo a lungo in questa disposizione di ascolto, ad un certo momento, appare agli occhi della mente del terapista un nucleo centrale pulsante che "ordina" gli elementi. Allora egli può trascurare i singoli elementi e concentrare la sua attiva attenzione sul mettersi in relazione con tale nucleo.” Continua Neri (2002) “L’immaginare con gli occhi della mente" un solo nucleo, a mio avviso, non è però sufficiente. È necessario percepire sia un nucleo centrale elaborabile come trasformazione in K, sia un altro nucleo ignoto, definibile come "fuoco", "attrattore e propulsore", ed elaborabile in termini di evoluzione in O. I due "nuclei", disposti a livelli diversi, sono ambedue inconsci. Il "nucleo", che corrisponde al primo livello, è rappresentato da una fantasia esistente, già formata, vicina al livello preconscio e che trova facilmente connessioni con il tema della seduta. Il "nucleo", che corrisponde al secondo livello, invece, è ignoto, in evoluzione e in via di definizione. Non è un tema, ma come dicevo è un "fuoco", un attrattore e un propulsore. Quando le associazioni dei membri del gruppo si condensano in forma unitaria, esse si dispongono su due livelli. (3) Il primo livello (il primo "nucleo") trova riscontro nel tema manifesto della seduta. È il tema che il terapista riconosce e che nel tradizionale approccio del "gruppo come un tutto" interpreta. Questo tipo di tema (o fantasia) può essere elaborato attraverso ciò che Bion definisce trasformazione in K (conoscenza). Il secondo livello (il "fuoco", l’"attrattore" e "propulsore") corrisponde a una "fantasia" ancora non ben definita. Tale "fantasia" non ha forma, ma è dotata di una potente forza. È impossibile conoscerla, dato che è ancora priva di forma. Tuttavia può evolvere. Bion (1970) parla di evoluzione in O, dell’evoluzione di ciò che è ignoto. L’individuazione del fuoco è facilitata da un’ottica secondo cui i membri del gruppo ed i loro interventi vengono considerati espressione di un significato complessivo, che diventa accessibile se si rinuncia ad una modalità di pensiero che separa e classifica e si assume un vertice sincronico. In precedenti lavori (Neri, 1994, 2017) ho chiamato «cercare la disposizione a stella» questa modalità di pensiero, che permette all’analista di percepire e rendere significativo un materiale disomogeneo e poco organizzato, individuando la presenza di un «nucleo centrale» o «fuoco», con il quale tutti gli elementi sono in relazione (Benjamin, 1933). Quando l’analista procede cercando di individuare la «disposizione a stella» tende a valorizzare lo spazio piuttosto che il tempo, più precisamente tende a cogliere gli elementi della seduta nella loro sincronicità. Con tale termine, in accordo con la definizione di Jung (1948), intendo una prospettiva opposta alla causalità, che considera come essenziale «la coincidenza degli eventi […] come significatore di qualche cosa di più di un mero caso» (ibid., 14).” L’ottica della sincronicità considera i sentimenti, le idee, i fatti, che avvengono nel campo, come compresenti, sia nel caso appartengono al momento attuale, sia nel caso appartengono al passato, sia nel caso siano semplici aspettative o timori verso il futuro. Assumere il vertice della sincronicità significa, quindi, operare una forte compressione della prospettiva temporale, dove il tempo si condensa nel “qui e ora”. Vi deve essere inoltre un pensiero che non separa, sceglie, isola e classifica, ma assume la totalità degli eventi degli eventi presenti come tale da esprimere un significato. Per esempio se un paziente inizia a tossire, poi racconta di qualche episodio dove si è sentito escluso, poi afferma un’idea di sacrificarsi, di mettere in secondo piano se stessi, poi racconta di aver avuto dei problemi quando sono nate le sorelle, tutti questi elementi devono essere considerati come capaci di esprimere un significato complessivo, che può essere un emozionalità, o per dirla con Bion un “O” di sentirsi un escluso senza diritto di essere visto. Neri (2017) parla di cercare mentalmente da parte del terapeuta soprattutto nelle setting gruppali, ma credo che il discorso possa spostarsi anche nei setting individuali, la “disposizione a stella”. Essa consiste nel percepire ed organizzare mentalmente i dati che emergono dagli interventi dei membri del gruppo (ma anche del paziente) e più in generale da ciò che emerge in seduta, valorizzando la categoria spazio più di quella del tempo. La “disposizione a stella” utilizza lo spazio come dimensione organizzativa essenziale, permettendo al terapeuta di cogliere gli elementi della seduta nella loro sincronicità. Permanendo a lungo in questa dimensione di ricezione, l’analista potrà infine intuire la presenza di un nucleo centrale. Quando egli individua tale nucleo spontaneamente potrà vedere i singoli elementi emersi in relazione con esso. Quindi nel corso della seduta il terapeuta può mettersi all’unisono con questo punto focale, così segue e in promuove il suo prendere forma. Questo suggerisce Neri (2017) è mettersi all’unisono con l ”O” bioniano.

Trasformazione in allucinosi

Bion descrive tre tipi di trasformazioni, che comportano diversi gradi di deformazione dell’elemento emotivo di partenza: proiezioni a moto rigido, proiettive e in allucinosi. Le prime due corrispondono al transfert e alle identificazioni proiettive. Nel terzo tipo di trasformazione Bion prende in prestito dalla psichiatria il termine “allucinosi” e formula un suo costrutto originale di trasformazione. Paradossalmente Bion indicherà che il miglior modo di un’analista per avvicinarsi all’intuire i fatti psichici del paziente è di approssimarsi ad uno stato di allucinosi, dove meno la persona è in contatto con se stessa, e più inconsciamente, colora il mondo con i colori della propria realtà psichica interna. Nella persona che utilizza questo tipo di trasformazione Bion ci dice che ha sofferto di “ un’esplosione emotiva intensa e catastrofica di “O”” Gli elementi Beta prodottisi non hanno trovato ad accoglierle nessuno che desse loro una forma e le trasformasse in elementi psichici pronti per sognare e pensare. Quindi tale paziente ha sofferto un’esperienza traumatica di mancato contenimento psichico, uno stato di angoscia che se non contenuta e calmata può diventare un “terrore senza nome”. Dopo tale catastrofe ci si abitua ad abitare in un mondo desertico, privo di vita e in preda all’odio. Pensare il dolore è impensabile perché intollerabile, lo vivrebbe come un annullarsi. Questi elementi verranno proiettati ma a differenza che con la trasformazione proiettiva e a moto rigido non troveranno un contenitore ad accoglierle. In realtà il paziente poi non lo cercherà più. Le emozioni quindi si perdono in uno spazio siderale dove sono sentite e non sofferte come soggetto (IO soffro il dolore io soffro il piacere) poiché non hanno significato. Lo spazio significa luogo della perdita. Questi due elementi sono così strettamente uniti che quando l'idea dello spazio comporta l'idea dell'assenza della ma¬dre, per non soffrire l'assenza della madre - che arreca di¬sperazione - non deve essere pensato nemmeno lo spazio. Qui Bion introduce l'analogia tra la teoria psicoanalitica intuitiva e lo spazio geometrico per richiamare l'attenzio¬ne degli psicoanalisti sull'evidenza che nell'area del pen¬siero psicotico nessun significato può essere aggiunto pri¬ma di ritornare al «luogo dove era qualcosa», un qualcosa il cui significato è stato distrutto lasciando nel paziente un senso di non esistenza (quasi fosse un neonato spaventato dall'assenza del seno). Questo evento originario, indescri¬vibile e impensabile da parte del paziente, non permetterà all'analista di lavorare poiché, se l'analista parla, le sue pa¬role sono private di significato. Questo è il rovescio del pensare ovvero non riuscire ad assimilare niente di nuovo significa essere inibiti nella propria capacità di conoscere la realtà. Il pensiero non nasce dalla pura assenza dal puro contatto con la “non cosa” come la chiama Bion, ma dal ritmo felice di assenza presenza con cui esso modula e rende tollerabile la frustrazione che ha risvegliato eclissandosi. Pensare dare un senso personale alla realtà che in termini bioniani significa sognare la realtà, fare un lavoro psicologico conscio ed inconscio per creare nuovi legami emotivi e costruire un senso, non è un fatto banale ed assodato ma molto complesso doloroso e difficile da attuare. E’ la misura di quanto si riesce a sopportare dell’assenza dell’oggetto (non-cosa). Se si riesce ad avere una tolleranza a questa frustrazione, una parola smette semplicemente di avere solo “senso” come elemento che unifica più elementi in una unione costante e diventa ed assume “significato” e certifica l’inesistenza della cosa rappresentata. Il simbolo è il testimone dell’assenza della cosa. Poiché il dolore dell’assenza è intollerabile nell’allucinosi si nega l’assenza della cosa o in termini kleiniani del seno (della soddisfazione) e la frustrazione che ne deriverebbe. Il seno assente (zero-assente ovvero non cosa), indispensabile per simbolizzare, è ridotto a “nullità” ed è ostile, invidioso ed avido e neppure esiste lo si spoglia della sua esistenza. Riolo (2010) si esprime in questi termini sull’allucinosi :” E perciò i processi, gli oggetti e i significati di questo mondo sono antagonisti rispetto a quelli che procedono dalla parte non-psicotica, comportando l’inversione di tutti i valori psichici: la ricerca di gratificazione è capovolta in evitamento della frustrazione, l’inferiorità in superiorità, il pensiero in azione; l’assenza in presenza, la «non-cosa» in «cosa». La formula dell’allucinosi è per Bion: 0 = 1. Il modello di questo processo è la relazione allucinatoria con il seno. Diversamente dalla relazione normale, in cui l’assenza di soddisfacimento si traduce nel riconoscimento dell’assenza dell’oggetto e dunque in un pensiero (0 seno = 1 pensiero); in questa relazione, «il ricordo del soddisfacimento è adoperato per negare l’assenza di soddisfacimento». L’assenza del seno equivale quindi alla sua presenza (0 seno + 1 seno = 1 seno) (Bion, 1965). In altri termini, la differenza tra l’esistenza e la non esistenza dell’oggetto viene negata, per allontanare l’assenza della cosa (no thing) da «niente» (nothing); ovvero viene fatto «uso di 1 per sopprimere la nullità (noughtness) di 0». Nel dominio della realtà sommare 0 a 0 è uguale a 0; nel dominio dell’allucinosi è uguale a O (alla cosa). «La capacità di «zero» di aumentare per partenogenesi, scrive Bion, corrisponde alle caratteristiche della rabbia, che è appunto capace di crescere e prosperare smisuratamente rifornendosi di illimitate provviste di niente» (Bion, 1965, 134). Per sintetizzare possiamo dire che per Bion la capacità dell'analista di stare in uno stato di allucinosi è quella di intuire una realtà psichica priva di realizzazione sensoriale nota, cioè prive di un contesto di realtà sensoriale. L'obbiettivo di questo procedere, che costituisce il fondamento e contemporaneamente il pericolo della pratica analitica, “è essere all'unisono con l' O del paziente”. Per l'analista essere all'unisono con O consiste nella capacità di produrre una rappresentazione della realtà del paziente a lui ignota. Questo tipo di rappresentazione, che trova il suo equivalente patologico nell'allucinare, è legata alle capacità intuitive dell'analista e alla sua possibilità di sopportare la paura della follia che il paziente non è in grado di contenere. Questo passaggio trasformativo è pervaso da un senso catastrofico perché connesso all'ignoto, al cambiamento e al poter sentire veramente quei sentimenti che si teme di avere. Ma è anche il solo passaggio che, elaborato in un codice cognitivo, permette all'analista la successiva comunicazione, cioè l'interpretazione trasformativa, che consente al paziente di riprendere contato con i suoi vissuti non evoluti e non integrati.

La trasformazione in allucinosi come strumento tecnico dell’analista.

Bion afferma (1984)che la relazione tra le due persone (analista –analizzando) è una faccenda a due sensi e poiché si è impegnati a mostrare che in quella relazione non si tratta di parlare dell’analista e dell’analizzando; si tratta di parlare di qualcosa “tra” loro”. E continua”…per fare un esempio, può darsi che un analista senta che il suo paziente sposato non è sposato; se sente così, ciò vuol dire che da un punto di vista psicoanalitico, il suo paziente “non è” sposato; vi è una discrepanza tra la realtà emotiva e la realtà basata su quanto il contratto matrimoniale presuppone. Di fronte a chi mi faccia osservare come quanto sopra sembri indicare che l’analista deve conservare la propria capacità di ricordare, io continuo a sostenere che egli la conserva comunque; ma che l’errore può più facilmente sorgere dall’incapacità di “svestirsi” della memoria che dalla mancanza di memoria.” (Bion,1984) Quindi Civitarese (2014) dichiara che per entrare in contatto con i fatti immateriali dell’analisi, Bion chiede all’analista di fare un uso della sua “capacità negativa” cioè di ascoltare “senza memoria e desiderio” per ridurre intenzionalmente al minimo indispensabile il “percepire” , l’attività di accogliere nuovi elementi della realtà, per esaltare l’immaginare (l’allucinosi che di per sé è inconscia), l’attività di rivestire la realtà di elementi già noti; a questo punto egli si troverà in una condizione emozionale, come in una specie di deprivazione sensoriale sperimentale ricercata, propizia all’insorgere di uno stato di allucinosi. Bion quindi chiede di cancellare il più possibile la realtà esterna per potenziare la percezione di quella interna. Accrescere indirettamente l’allucinosi della realtà esterna, ossia il vedere inconsciamente la realtà esterna con il massimo possibile di soggettività, per darsi modo di intuire più facilmente la realtà emozionale attuale della relazione analitica in corso. Bion (1967) in “Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico dice: ”L’allucinato è colui che ha delle esperienze sensoriali prive di un contesto di realtà sensoriale. Allo stesso modo l’analista dovrebbe essere capace di intuire una realtà psichica priva di realizzazione sensoriale nota” . Questa predisposizione potrebbe essere pensata come quando ci si predispone al sonno riducendo l’attività della psiche mediata dai sensi. Un sognare da svegli. Come quando si dice che i psicotici sognano da svegli. La differenza con la vera allucinazione è che l’analista è capace di svegliarsi. Ossia di cogliere la contraddizione tra la sua idea “delirante” o “allucinazione” e la realtà nel momento in cui se ne rende conto. Bisogna che il terapeuta entri in uno stato del tutto analogo di allucinosi del paziente. Un diniego attivo e conscio sulla realtà materiale per permettersi di vivere il diniego inconscio che il paziente porta sulla stessa realtà materiale nel momento stesso in cui la vede interamente nei suoi termini più soggettivi. Lo scopo è entrare in risonanza in profondità con la realtà psichica del paziente. Il paziente cancella inconsciamente la realtà psichica costruendosi un mondo iperconcreto, l’analista a sua volta cancella coscientemente questo mondo nel suo ascolto per risalire al paesaggio della realtà psichica di cui esso rappresenta la trasformazione. Quindi l’analista riesce a contenere le emozioni grazie al risveglio dall’allucinosi dà alle cose un significato personale e fa un lavoro di integrazione somato-psichico. I pazienti di cui stiamo parlando propongono situazioni di transfert-controtransfert difficili in cui l’analista è sollecitato continuamente a rivivere e sperimentare ciò che il paziente ha vissuto negli schemi relazionali originari. Si tratta di stati in cui la riflessione, il pensiero, la libertà dell’analista sono minacciati e compromessi, stati penosi da cui l’analista può essere tentato di uscire attraverso interventi che non tengono conto del livello di interazione entro cui prende forma quello stato, che non considerano che il senso di soggettività del paziente è tale da non sapere quello sta facendo. Se diamo per scontato che il paziente sia dotato della capacità di “pensare” (Bion, 1961) o di un livello di soggettività che gli consenta un sufficiente livello dell’autoconsapevolezza riflessiva di cui parla Fonagy (Fonagy, 2005), c’è il forte rischio che gli interventi dell’analista siano dettati per lo più dalla necessità di liberarsi dei sentimenti penosi indotti dal paziente e finiscano per riproporre nei pazienti proprio le ferite del trauma originario. “Quando l’analista attribuisce semplicemente il sentimento ostile al paziente, piuttosto che considerarlo un nuovo risultato di una situazione intersoggettiva, l’interpretazione può risultare non solo prematura ma errata in quanto il paziente può nuovamente vivere il senso di un’attribuzione sbagliata” . Secondo la mia prospettiva, l’azione identificativa proiettiva può giungere a determinare una riproposizione del trauma originario in quanto l’analista è indotto a diventare nel transfert il genitore che non riconosce gli stati interni del bambino e gli attribuisce sensazioni o stati d’animo propri. Può essere inteso in questi termini l’uso di alcune interpretazioni di transfert, che presuppone una condotta incentrata sulla rimozione che necessita disvelamento, laddove le condizioni cliniche del paziente lasciano intendere un uso massiccio di difese più primitive (Bonfiglio, 2010) che richiedono altre modalità di approccio terapeutico. Da una prospettiva bioniana: la conoscenza (K) senza l’esperienza di “O” diventa -K, il negativo della conoscenza. Non basta sapere qualcosa: solo le interpretazioni che trasformano il “sapere su qualcosa” nel “diventare qualcosa” producono cambiamento (Grimberg, Sor, De Bianchedi, 1977). Solo quando analista e paziente entrano nel “divenire O”, quando cioè l’analista “diventa” effettivamente l’oggetto del paziente e il paziente “diventa” l’oggetto dell’analista, può attivarsi il processo di decodifica di segnali che non hanno ancora o che hanno perduto il loro significato: è il passaggio da O a K, quello da un’esperienza primordiale, non-verbale, non-simbolica, a un significato che può essere pensato. Freddezza, distacco, indifferenza, estraneità sono sentimenti difficili da maneggiare, soprattutto quando sentiamo di esserne “ingiustamente” fatti oggetto o quando li sentiamo entrare a far parte di noi. Spingerei oltre la classica affermazione di Ferro (2002) secondo cui è necessario che la relazione si ammali della malattia del paziente per dire è necessario che l’analista in qualche misura se ne ammali, arrivare a quelle forme di temporaneo impazzimento dell’analista di cui parlava Searles (1994).

Bion e i processi del pensare terapeutico.

Dopo l’avvento di Bion, si deve considerare in parte superata l’idea di un inconscio inteso come area di scavo, serbatoio della sedimentazione dei pensieri e dei desideri rimossi, e soprattutto di una psicoanalisi che funzioni solamente come scoperta “archeologica” delle stratificazioni del rimosso, dove sembrerebbe esistere un “meno profondo” e un “più profondo”. L’inconscio è piuttosto una funzione in continua formazione della personalità che consente all’essere umano sia di “digerire la realtà” che di e nutrire la mente. Cerchiamo, a questo punto, di fare una sintesi dei concetti bioniani che possono aiutare il terapeuta a pensare: La reverie bioniana è una sonda che permette di cogliere la dimensione inconscia del campo analitico. Essa equivale ad un lieve trasalimento che ci dà modo di cogliere l’emergere dell’inconscio come qualcosa che non sta né “sotto” ne “sopra” ne “dietro”- in un qualche ripostiglio recipiente come l’idea freudiana di inconscio- ma dentro il conscio, purché lo si sappia percepire. E’ così che entrando in un tipo di sintonia somato-psichica profonda, si può riuscire ad espandere l’area del pensabile e del contenitore psichico. Per entrare in contatto con il paziente, bisogna liberarsi la mente dalle psicopatologie e dalle metapsicologie, che spesso assolvono solo alla funzione di chiudere difensivamente i canali della ricettività ad irruzioni di elementi beta. Bisognerebbe avere un modello che permetta di fare un buon uso delle teorie (e dell’esperienza) nell’atto stesso di dimenticarsele. La tecnica per i pazienti più gravi è quindi completamente diversa da quella freudiana classica. Più che essere riflettente come uno spazio, l’analista deve poter essere riflessivo, nel senso di poter introdurre come funzione o luogo del campo analitico il proprio stesso funzionamento mentale. Il controtransfert è il contraltare obbligatorio del transfert e comprende l’intera gamma del repertorio di sentimenti ed emozioni dell’analista nella situazione analitica, mentre la Reverie (Bion 1962) designa rigorosamente l’assetto mentale volontariamente diretto ed indotto dell’analista che “abbandonala memoria e il desiderio” per essere ottimamente intuitivo e ricettivo verso il proprio inconscio di fronte all’analizzando. (Bion 1967). La capacità negativa è quello stato in cui si fa l’esperienza di non sapere. So che sto vivendo qualcosa, ma non so ancora cosa è, e può darsi che dovrò vivere questo stato per molto tempo. La capacità di sopportare questa incertezza necessaria e di darle valore è una delle responsabilità cliniche più importanti; e accentua la nostra capacità di perderci nell’ambiente in evoluzione del paziente, permettendo ad esso di manipolarci nell’uso del transfert per raggiungere l’identità oggettuale. Se il nostro senso di identità è sicuro, allora perdersi nello spazio clinico è essenziale, perché il paziente possa scoprire se stesso. Consentendo quindi quello che Winnicott chiama (1971) l’uso dell’oggetto, ovvero essere usati come “oggetto” l’analista facilita il processo che produce la coesione del Sé dell’analizzando (Bollas, 2007). “Memoria” non significa semplice memoria di contenuti, ma soprattutto, ci dicono le neuroscienze, memoria di funzioni. Il cervello deve sapere in che modo funzionare, deve averlo imparato, in modo individuale, e deve averne memoria. Memoria di funzioni vuol dire quindi memoria del tipo di elaborazione che il singolo cervello farà con tutti gli input che continuamente gli arrivano, ma anche con tutti i “rimescolamenti” che con questi e con i precedenti, e secondo il proprio modo di lavorarli, quel cervello continua a fare. È memoria quella che “fa” l’integrazione ,la cosiddetta elaborazione dell’apprendere dall’esperienza come direbbe Bion: anche da quella generata dal continuo lavoro interiore. La memoria è tutt’altro che “magazzino”. Le informazioni, non solo vengono via via modificate e trasformate, ma, così trasformate, trasformano l’intera memoria stessa rispetto a come era in precedenza; e quindi modificano il modo con cui essa funzionerà nell’elaborare ogni successiva informazione, facendone “esperienza”. Possiamo quindi parlare di una memoria assolutamente inconscia, non coscientizzabile, in quanto senza “forma”, ineffabile, alcuni come abbiamo visto la chiamano inconscio non rimosso. In altri termini abbiamo visto viene chiamata con più esattezza memoria implicita che è la stragante maggioranza di tutta la memoria. Collegando il concetto di memoria a quello di inconscio a quello di memoria, si può dire che non c’è ragione a livello neurologico per continuare ad usare il concetto di rimozione. Possiamo invece provare a pensare che il continuo lavoro della memoria, e cioè il lavoro di tutte le connessioni neuronali, possa originare diversi gradi e forme di coscienza e che questo comporti talora la possibilità di una qualche verbalizzazione, forse in un continuum (Pankseep, 2012) considera gli affetti come memoria di funzioni, e i sentimenti, più o meno avvertiti dall’individuo, costituiscono forme di coscienza), ma questo non ha a che fare con una spinta indietro della rimozione. Al contrario quindi oggi sappiamo che tutto è inconscio, salvo i casi in cui entrino in azione quelle funzioni che originano una qualche coscienza. Dovremmo con queste due umiltà indagare le origini del “pensiero”: ma proprio le origini, quelle di quando non si è ancora formata coscienza alcuna. Bion ci ha aperto una strada, ma forse essa potrebbe essere continuata, sviluppata, forse in altre direzioni. Dovremmo forse imparare cose nuove, ma forse in un tipo di apprendimento che non passi attraverso la coscienza, attraverso la parola e l’interpretazione; che tocchi direttamente la memoria implicita, il nostro funzionamento mentale nelle sue radici. A tal proposito sottolineiamo che Kandel distingue nell’uomo due tipi di memoria: - La memoria esplicita che può essere evocata coscientemente e verbalizzata. Essa riguarda la propria autobiografia relativamente a specifici eventi e permette di dare un senso al ricordo delle esperienze della propria vita. La memoria esplicita, dunque, permette attraverso il ricordo un processo ricostruttivo della propria storia personale e partecipa alla formazione della propria identità. Essa necessita della integrità dell’ippocampo bilaterale, del lobo temporale mediale e delle aree frontali basali. In particolare l’ippocampo è la struttura chiave della memoria esplicita in quanto seleziona e codifica le informazioni che verranno archiviate nella corteccia associativa.

- una altra è la memoria implicita che è essenzialmente una memoria affettiva, emozionale, legata a percezioni somatiche, ha sede nel sistema limbico e, in particolare nell’amigdala accompagna l’apprendimento del bambino fin dalla nascita ed è l’unica possibile per i primi due anni di vita; è detta implicita perché non si associa alla coscienza del ricordare. Una volta che il ricordo è immagazzinato nella memoria implicita è necessario, perché ricompaia, che le reti associative a cui è collegato raggiungano un certo livello di attivazione, come avviene nel caso del ripresentarsi, anche a distanza di tempo, di esperienze emozionali analoghe e di sufficiente intensità. Vorrei subito proporre alcune brevi considerazioni sui dati di queste ricerche su cui ritornerò più avanti. Esse, innanzitutto, mettono in rilievo la centralità delle emozioni come vero ponte di congiunzione tra biologia e influenze ambientali, tra espressioni somatiche e processi cognitivi, tra natura e cultura. Propongono, inoltre una possibile interpretazione dell’attività mentale inconscia, che amplia quella dell’inconscio freudiano, come luogo del rimosso, e la estende a un inconscio non rimosso, pre-verbale, pre-simbolico che si associa, in particolare, alle prime esperienze di vita. Anche, come vedremo più avanti nel libro, Edelman, premio Nobel per la Medicina nel 1972, concentra la sua attenzione sul problema della memoria. Per Edelman (1991) la memoria non deve essere concepita come un archivio in cui vengono depositati ricordi organizzati e codificati; essi, cioè, non esistono sotto forma integrata, come tracce significative che verrebbero conservate. Le ricerche mostrano che esistono, piuttosto, frammenti di ricordo e che l’integrazione dei frammenti avviene al momento della ri-memorizzazione nel presente, assumendo connotazioni particolari in rapporto al contesto interattivo in gioco in quel momento. È in questo senso che possiamo affermare che la memoria risiede nelle interazioni interpersonali. Ed è in questo senso che possiamo sostenere con Edelman che, paradossalmente, è il presente e non il passato che siamo sempre intenti a riconoscere e a ricordare (“il presente ricordato”). È evidente, allora, che se le recenti ricerche sulla memoria autobiografica suggeriscono che quasi tutti i ricordi vengono ricostruiti sotto l’influenza del contesto presente nel quale vengono richiamati, se ne deve dedurre, che “la memoria si produce nell’interfaccia tra l’intrapsichico (rappresentazione) e un’interazione presente” e che, dunque, è nello scambio dinamico tra “intrapsichico” e “interattivo”, che debbono ricercarsi le radici dei processi mentali. Quindi la resistenza oggi la si spiega in base a quello che si sa della memoria che cambia sempre ed è labile, e non bisogna confonderla con il ricordo. Il ricordo è qualcosa che momento dopo momento noi traiamo fuori dalle nostre memorie implicite ed esplicite, quello che la nostra coscienza qualche volta tira fuori dalla nostra memoria. E la coscienza è qualcosa di mutevole, ed è una nostra illusione. Non esiste “LA” coscienza, ma esistono delle variabili capacità individuali e anche sociali di essere più o meno coscienti di qualcosa. Per Bion l’accettazione dell’assenza e la sua trasformazione che da avvio al processo del pensiero. Di solito si pensa che, a partire da Freud, che il processo di simbolizzazione nasca per supplire all’assenza dell’oggetto esterno, che viene sostituito e presantificato dalla simbolizzazione. Bion è di tutt’altro avviso. Winnicott, invece, delinea, il processo di simbolizzazione a partire, dall’alternanza di Integrazione e inintegrazione psicosomatica che consiste nel suo modo di dire “sentirsi vivo” e questo costituirà i fenomeni e gli spazi transizionali. Cioè, uno stato che produce cambiamento, pregiudica che la struttura integrata perda la sua integrità e in quello spazio vuoto che si costituisce viene trasformato nello spazio transizionale, che quando viene interiorizzato costituirà una nuova integrazione psicosomatica. Per Bion invece è proprio il dolore della consapevolezza dell’assenza, che fa si che questa si trasformi in pensiero e simbolo. Quindi non è il simbolo che sostituisce l’assenza ma è essa che produce il simbolo se gli si da il tempo di farlo. Nelle situazioni cosiddette di condizione emozionale alessitimica l’analista sperimenta sulla sua pelle per contagio condizioni di forte noia, senso d’inutilità, sensazioni claustrofobiche. E’ pressato da dubbi. Teme di trovarsi in una situazione bloccata. Svuotato e privo di risorse. Fatica star fermo, a restare “vivo” nel senso winnicottiano del termine e attento. Avverte dolorosamente il passare del tempo. Avverte un senso di minaccia che grava sullo stesso paziente, un pericolo grande ma invisibile. Ci vuole un estrema pazienza ed un grande lavoro immaginativo/creativo che possa aiutare a creare realtà psichica dove apparentemente sembra che non ce ne sia traccia. Ma a mio avviso è proprio qui in queste situazioni che è utilissimo la concezione di essere e cercare all’unisono l’O del paziente di cui parla Bion. Ad ogni oscillazione da beta ad alfa lo spazio mentale diventa più nitido ed acquisisce forma tridimensionale. Dati dispersi vuoti congelati confusi omogenei illimitati riescono a diventare ed apparire finiti, coerenti, ordinati con un senso psichico. Le condizioni sopra descritte di anomia diventano più avvicinabili e conoscibili. Si scioglie il gomitolo di protoemozioni indigerite e non rappresentabili da cui nasce la sofferenza psichica. La psiche si reinsedia o si insedia per la prima volta nel corpo e smette di sanguinare dalle sue ferite. Bion usa la parola “stupor” per indicare uno stato mentale di volontario indebolimento dell’attenzione focalizzata, ossia di sospensione della normale reattività agli stimoli. Il fine di questo è quello di esaltare una coscienzialità marginale, che potremmo identificare con la capacità di usare l’intuizione, rivolta invece alle emozioni e a tutto ciò che non è visibile direttamente dai sensi. Una condizione del genere favorisce l’affiorare di immagini, sensazioni, pensieri che hanno il valore di “allucinosi”, vale a dire di produzioni psichiche apparentemente in contrasto con l’esame della realtà fattuale del paziente, ma che invece sono altrettanto indici di aspetti importanti della sua realtà psichica o della realtà emotiva inconscia della relazione terapeutica. L’esperienza della realtà. Visto che uno dei processi principali, seguendo gli insegnamento di Bion, per accostarsi al mondo emozionale è quello di diventare ed essere “O” cerchiamo di accostarci in punta di piedi a questa enorme questione cercando di chiarirne pochi tratti, chiarendo subito che ciò non sarà esaustivo di tale complicato e complesso tema: L’esperienza che facciamo della realtà. A tal proposito Facco (2018) afferma che gli organi di senso e il sistema nevoso centrale periferico sono i mezzi di contatto con il mondo, la nostra capacità di percepire la realtà è limitata dalle loro proprietà fisiologiche( per esempio gli spettri delle onde elettromagnetiche ed acustiche percepibili, i processi di codificazione cerebrale e la formazione delle immagini). Gli organi di senso si comportano come dei veri e propri filtri con una banda passante che determina quello che possiamo percepire, mentre i processi di codificazione cerebrale con cui si elaborano le immagini mentali della realtà sono inconsci: questo determina la condizione fisiologica della coscienza ordinaria, ossia il suo realismo fenomenico, ossia l’illusione che la realtà sia costituita da quello che percepiamo così come lo percepiamo. Possiamo dunque pensare il nostro apparato sensoriale cerebrale come un prezioso strumento di contatto con il mondo e, contemporaneamente, come un filtro che deforma e cancella sistematicamente intere parti della realtà del mondo esterno. Questo è il miglior punto di partenza per cominciare a riconoscere l’illusorietà delle diverse posizione realiste e obiettiviste, che hanno pervaso la storia dell’umanità ed anche la scienza. Afferma Eagleman (2012) “Il cervello fa una bella fatica a distinguere tutti i dati che pervengono agli occhi….questo comporta un notevole sforzo, come dimostrano i pazienti che riacquistano la vista grazie ad un’operazione chirurgica dopo decenni di cecità: non vedono subito il mondo, ma devono imparare a vederlo di nuovo. In un primo tempo il mondo appare come loro come una caotica cacofonia di forme e colori, e anche quando nei loro occhi tutto torna a funzionare è il cervello che deve imparare a interpretare i dati in ingresso”. Uno degli errori più diffusi è quello di pensare ciecamente che noi attraverso l’apparato visivo elaboriamo una rappresentazione fedele di quello che c’è “la fuori”. L’aspetto più sorprendente continua Eagleman (2012) “ e che i dati al nostro cervello non generati, bensì modulati dai dati sensoriali esterni. L’attività generata internamente è modulata dagli input sensoriali. Secondo questo, la differenza fra essere svegli ed essere addormentati è una sola: nel primo caso i dati provenienti dagli occhi ancorano la percezione. La visione che si ha durante il sonno (i sogni) è una percezione che non è legata ad alcun elemento del mondo reale; la percezione della veglia non è molto diversa dal sogno, ma ha un legame leggermente maggiore con ciò che ci sta fronte. Altri esempi di percezione disancorata si riscontrano fra i prigionieri tenuti in isolamento in celle completamente buie o fra le persone rinchiuse in camere di deprivazione sensoriale. Entrambe queste situazioni producono presto allucinazioni.” Quindi continua Eagleman (2016) “ quello che noi vediamo si basa meno sulla luce che entra nei nostri occhi e di più su ciò che è già presente nella nostra mente” riportando poi un’esperienza di un prigioniero, che era stato rinchiuso in una cella chiamata “il Buco” (perché priva di luce e in completo isolamento), ad Alcatraz, scrive “ ..chiusi com’erano dentro il Buco, i suoi sensi non potevano fornire al cervello nuove informazioni cosicché il suo modello interno aveva libero accesso alla fantasia, fornendogli nitidi suoni ed intense visioni. Anche quando i nostri cervelli sono disancorati dai dati esterni dai dati esterni, essi continuano a generare immagini: eliminate il mondo, ma lo show continua ad andare in scena”. Certamente tutto questo può essere accostato al pensiero onirico della veglia, e al bisogno di cercare di diminuire per cogliere la realtà di “O” di “memoria e desiderio”, ovvero una diminuzione dei nostri sensi, descritto da Bion molti anni prima di tante ricerche neuroscientifiche, che oggi gli danno ragione delle sue geniali intuizioni. Infatti, Per esempio durante una seduta il terapeuta comprende improvvisamente che dietro una serie di arroganti comportamenti il paziente sta soffrendo una forte vergogna. Subentra nel campo analitico una immediatezza dell’esperienza che prima non c’era. Vedere la vergogna da parte del terapeuta denota l’emergere di O, la vergogna è “vista” o “intuita” per usare il termine che utilizza Bion. La vergogna in se stessa non è qualcosa che viene percepito grazie ai sensi. Si può vedere qualcuno che arrossisce ed inferire la presenza di vergogna, ma non si può vedere la vergogna stessa. Il caso in cui si vede qualcuno arrossire e si inferisce la presenza di vergogna, ma non si può vedere la vergogna stessa. Il caso in cui si vede qualcuno arrossire e si inferisce la vergogna è molto differente da quello in cui il terapeuta “intuisce” la vergogna. Nel primo caso essa è al di fuori e nel secondo caso l’analista è “diventato” la vergogna. Una realtà psichica viene conosciuta soltanto grazie al fatto di essere in primo luogo “divenuta”. Questo vale per la vergogna e per tutte le emozioni. La posizione di Bion è che questa realtà va intuita e che i sensi blocchino l’intuizione della realtà psichica. Questa è l’identica posizione descritta prima da Eagleman quando parla dell’esperienza che fa il cervello quando si disancora dalla percezione dei sensi della realtà esterna, in situazioni come le deprivazioni sensoriali o nei sogni. Il cervello crea immagini tutte dal suo interno. Abbiamo bisogno del contatto con la realtà e nello stesso tempo abbiamo bisogno di costruirla noi creativamente. Il lavoro creativo di incontro/scontro con la realtà sta nel creare un buon equilibro diciamo tra “il dentro e il fuori” . Questo porta ad un buon funzionamento del pensiero e della mente. Lo stesso discorso può essere riferito alla relazione fra Contenitore/Contenuto. Essi non sono entità statiche, ma si definiscono e si creano uno rispetto all’altro, dove ciascuno è trasformato dall’altro. Una metafora che può farci vedere bene questa dimensione processuale è la parabola evangelica dove Gesù dice di non mettere il vino nuovo e in otri di pelle vecchi, perché il vino nuovo (il contenuto) fermenta e si espande e l’otre di pelle secca (il contenitore) esplode sotto la spinta di quella pressione. Lo stesso vale per le idee nuove, che non possono essere pensate da una mente fondata su una ragione vecchia e non fondata su O, dimensione che se incontrata rinnova l’apparato per pensare e i nostri pensieri. La mente nuova viene creata dal pensiero nuovo. All’inizio sarà la mente dell’analista a sopportarla e farle da contenitore nuovo. La mente nuova, creata dal pensiero nuovo, dipende dalla capacità, dapprima dell’analista, di distruggere (o abbandonare) i vecchi pensieri e la mente rigida che era servita da contenitore. Bion distingue tra “apparato per pensare i pensieri” e il “pensare”. Il primo viene concepito come il risultato di una sorta di ristrutturazione funzionale del cervello, che inizialmente è devoluto a compiti diversi dal pensare, e che solo successivamente si è adattato ad albergare i pensieri. Esisterebbero cioè un proto-cervello, che attraverso un processo evolutivo si trasforma in cervello come mente, con la funzione di contenere ed elaborare i pensieri. “pensare i pensieri” implica quindi un accogliere dentro di sé contenuti “estranei”; antecedenti all’apparato per pensare, che di fatto ci perseguitano e ci deprimono, costringendoci ad una tensione crescente per raggiungere un autentico processo di pensiero. Questa capacità di pensare non viene assunta una volte per tutte; essa implica vari passaggi e deve continuamente essere riconquistata. Arrivare ad un pensiero che si assume la responsabilità del pensiero stesso, e che implica la capacità di assumere i propri contenuti ed in particolare la responsabilità di pensare la violenza, l’aggressione, la rabbia distruttiva, la morte. I pensieri possono dunque promuovere lo sviluppo della mente, quando questa è in grado di contenerli, di dargli forma e comunicarli, anziché evacuarli per cui essa si espande ed accresce la propria capacità di fare esperienze. Bion (1997) afferma quando parla di pensieri “selvatici” che essi compaiono senza che noi abbiamo alcuna possibilità di rintracciare la loro provenienza, che essi stanno nell’aria “da qualche parte”, in cerca di un pensatore ed immagina scatole temporanee per accoglierli; l’elemento Beta è la prima scatola, che non corrisponde ad un pensiero, ma qualcosa di fisico, mentre l’elemento Alfa, anche se di natura analogamente fisica, è già “il prototipo di una reazione mentale”. Per Ferro lo stimolo sensoriale è l’elemento Beta, mentre secondo Rugi (2015) una attenta lettura di Bion ci indica che Beta è un elemento sfuggito alla funzione alfa, la quale non lavora su Beta, ma sugli stimoli sensoriali ed emozionali. La realtà di per sé non è né beta né alfa, casomai è O, in breve alfa e beta sono simboli che indicano il destino degli stimoli nel nostro incontro personale con la realtà. Questo significa che la trasformazione Beta> Alfa non corrisponde mai ad un normale processo di mentalizzazione dello stimolo, ma richiede un lavoro supplementare, che non è sempre possibile. Gli elementi Beta vengono evacuati, ma possono essere anche accumulati, non entrano mai però a far parte del pensiero, né diurno, né notturno. Bion afferma (1962) che:” gli elementi beta vengono immagazzinati, non già come ricordi, ma come fatti “indigeriti”. In Bion quindi non vi è un processo lineare beta > alfa, ma per Bion la realtà o la verità ultima come la chiama lui, non possono mai trasformarsi, invece la nostra “verità emotiva” no, essa ci appartiene, fa parte della nostra mente. La verità emotiva indica il nostro modo di percepire e di vivere le esperienze, appartiene alla nostra relazione con il mondo, interno ed esterno. La trasformazione Beta >alfa non riguarda quindi la trasformazione della realtà ontologica, ma può interessare solo la nostra verità emotiva, e quindi della nostra reazione alla realtà. Quindi possiamo dire che il vero punto di arrivo della teoria di Bion non è la trasformazione Beta>Alfa, ma la trasformazione in O, ovvero la trasformazione in cui il soggetto “diventa” ciò che ha esperito. Quindi ciò che interessa in analisi è quella parte di O che è semplicemente, non la realtà ultima, ma l’esperienza emozionale condivisa tra paziente ed analista. L’esperienza emotiva che può essere vista anche come un ponte tra elementi beta ed O. L’esperienza di O è dunque già inerente ad ogni esperienza emotiva non ancora pensata: è vissuto in atto, in quanto non ne sia ancora emerso un soggetto che lo pensi. Bion insite a più riprese sulla diversità tra l’esperienza in atto, in cui il soggetto è una cosa sola con essa. E il ricordo della medesima, che è già una differenziazione. Bion infatti (1970) distingue fra il provare dolore (experience pain) e il soffrire (suffering): lo psicotico sperimenta obbiettivamente il dolore, ma non lo vive come cosa sua: si potrebbe dire che egli è quel dolore, proprio per non soffrirlo. Ebbene l’esperienza in O è appunto nel remembering, nell’esperienza del dolore, e in genere nella esperienza emozionale in atto e non ancora soggettivizzata. In questo senso O si collega agli elementi beta, a loro volta esperienza emozionale che adesso a loro volta dopo la trasformazione in O si ad un successivo sapere, sia tramite la funzione alfa sia tramite la trasformazione in o (che ora può dirsi inclusiva della funzione alfa). L’esperienza è cosa in sé , proprio come vissuto in atto, anteriore al pensiero, dunque alla presa di distanza da esso da parte del soggetto. O quindi in questa ottica è l’esperienza stessa prima di poterla pensare ed esprimere, l’individuo è quella emozione, l’individuo è quella paura, è quell’angoscia, ecc. Panico angoscia si offrono allora esattamente come già gli elementi beta: afferenze pre-psichiche, biopsichiche, corporee, che urgono e richiedono una soluzione, una messa in forma. Ma come tali sono ineffabili (esperienze appunto come cose in sé) e il dirne è già un trasformarle. Anche Winnicott (1989) descrive così il problema dell’impatto con la realtà, che può essere accomunato all’esperienza di essere all’unisono emozionale con l’O di Bion, parlando del falso Sé che nasce da :”….dalla non identità tra ciò che viene concettualizzato e ciò che viene percepito…..All’osservazione obbiettiva di un’altra persona che osserva dal di fuori, ciò che è fuori da un individuo non è mai identico a ciò che è interno a lui, ma ci deve essere, perché vi sia sanità ….un punto di incontro, una sovrapposizione, uno stato di illusione, di intossicazione, di trasfigurazione”. Il primo concetto che si ha della vita avrebbe a che fare con l’area di “sovrapposizione” tra la felicità arrecata dal volto sorridente della madre e l’inquieto interrogarsi del bambino su quali siano i suoi veri sentimenti. L’esperienza o meglio il fare esperienza non può mai essere posta dietro o di fronte al soggetto in analisi (né memoria, né desiderio) né, tantomeno, al soggetto analista; non può mai essere pensata come “lì” di fronte al soggetto di uno spettacolo, poiché il soggetto è tale proprio perché sempre “avvolto” dalla sua esperienza, perché si trova già da sempre “coinvolto” dalla sua esperienza all’interno della scena che la sua stessa esperienza gli apre. In tale impossibilità di prendere le distanze per poter così mirare e misurare – e Bion su tale impossibilità dice cose importanti – l’esperienza si pone come l’inoggettivabile per eccellenza, come quel coinvolgimento originario all’interno del quale ogni oggetto, e quindi lo stesso schema soggetto-oggetto, è fin da principio posto. Una simile condizione può essere espressa anche in altro modo: l’esperienza non è mai pensabile come un problema che si possa porre, poiché è solo in essa, o a partire da essa, che qualcosa può essere posto, ad esempio come un problema. E’ dalla seduta analitica intesa come necessario “confronto” che nasce la trasformazione. In tal senso, ancora una volta, l’esperienza non sta di fronte al soggetto – analista o analizzando che sia – come un problema di cui egli possa prendere coscienza, prendere le misure, per tentare in un secondo momento di risolverlo o superarlo; fine di ogni logica del problem solving. Cosa significa per Bion che senza immaginazione non c’è conoscenza, quindi per la psicoanalisi neanche oggetti di conoscenza? Significa che gli oggetti non vanno pensati come nel realismo tradizionale inerti, stabili, i-dentici a se stessi, accessibili al cambiamento solo se recepiti in modo to-talmente passivo, adattando alla loro natura un apparato conoscitivo che sarà tanto più efficace quanto più docile e flessibile (l’anima aristotelica, ricordiamo, non aveva una sua forma per poter assumere le forma di tutto ciò che conosceva, e poi perderle per assumerne di nuove). Il primo e il secondo senso che abbiamo appena enunciato non sono per Bion opposti: più si è ciechi alla radicale molteplicità di storie e personaggi che potrebbero dar conto della nostra esperienza, alla molteplicità di soggetti che potremmo essere e di oggetti ed eventi in cui potremmo segmenta-re il nostro ambiente, meno avremo bisogno di ingegnose soluzioni per le sfide che ogni storia altra porta a quella ufficiale. Le anomalie, gli elementi beta, non verranno neanche colte, o verranno automaticamente corrette co-me si corregge un refuso, o verranno catalogate con un pizzico di inquietudine e d’imbarazzo entro comodi concetti-spazzatura pronti a raccogliere qualsiasi spazzatura: “Devo aver visto male”, “ho avuto un episodio paranoico”, “ho bevuto troppo”, “ero troppo stanco”. Ed è nella situazione originaria O che l’essere viene a trovarsi quando la diversità si mette in luce e i diversi si sfidano; ciascuno funge da elemento di disturbo per gli altri e ciascuno imparando a resistere a questa azione di disturbo e “inventando” strategie per farvi fronte, acquista maggior stabilità. Il “realismo psicoanalitico” è duro a morire, perché è la scelta della paura e la paura è l’angoscia di chi sente spalancarsi sotto i piedi il baratro possibile, è l’emozione più violenta atta a condizionare l’agire dell’analista (e del paziente). La paura ha in generale la meglio ed esorta ad appigliarsi a modelli familiari. Quindi l’analista ha quindi da oscillare tra un polo in cui è partecipante a pieno titolo di quanto sta accadendo nella stanza di analisi-sperimentare quindi la dimensione inconscia ed emotiva di O- e contestualmente essere osservatore e auto-osservatore di quanto sta accadendo dentro il legame analitico- posizione K- dove i due componenti sono considerati coinvolti nello stesso processo dinamico, tanto che nessuno dei due può essere capito dentro la situazione senza l’altro, in un continuo movimento spiraliforme K-O-K-O-K-O n.. volte e contestualmente O-K-O-K-O-K n…volte. Possiamo ipotizzare un pensiero somatospichico che assomiglia ad un pensiero concreto, automatico come quello del corpo e possiamo intravedere una distinzione tra una mente somatopsichica come un organo fisico, corrispondente al cervello ed una mente dove si può raggiungere quell’unità psicosomatica come qualcosa che prescinde dagli organi di senso. Ad ambedue è attribuita la funzione del pensare, ma in termini diversi: la prima è legata ad una evoluzione fisiologica dello psiche-soma, la che necessita, invece, di un faticoso apprendimento. La psiche di cui parla anche Winnicott, quella capace di immaginare i processi corporei, come se avesse degli occhi rivolti all’interno e che sappia vedere, sentire soffrire ed infine narrare gli accadimenti del corpo dove abita. Questo processo di Winnicott trova conferma in neuroscienze. Tanti studi in questo campo hanno osservato cambiamenti di attività neurale nell’insula destra, nella corteccia cingolata anteriore e nell’amigdala. Questo ha portato all’ipotesi che queste aree rappresentino in modo integrale risposte autonome e viscerali che vengono trasferite dal midollo spinale attraverso il mesencefalo, l’ipotalamo e la via talamo-corticale alla corteccia insulare destra. Sulla base di tali studi, continua Northoff (2019), “il neuroscienziato Bud Graig ipotizza che l’insula destra sia coinvolta : riceve input autonomi e viscerali dai centri inferiori e rielabora in modo integrato lo stato corporeo interocettivo Questo processo consente all’insula di dare origine ad una immagine mentale del proprio stato fisico. Questo secondo Graig, fornisce la base per la consapevolezza soggettiva del sentimento emotivo e del Sé come “material me”” Il corpo e la mente, dunque, sono co-pensatori, ma con qualità diverse nella funzione di interazione con la realtà e con se stessi. Un corpo capace di fare esperienza ma non di pensarla, mentre la seconda attrezzata per provare a comprendere. Ambedue sono in contato con la realtà esterna, ma il corpo ne ha un’esperienza diretta, la mente soltanto attraverso gli organi di senso che, però può filtrare, deformare, anche occultare. La conoscenza quindi, è costituita da Alfa, ciò che l’individuo sa, ma anche da Beta, che comprende ciò che l’individuo non sa. Pertanto, tutto ciò che è stato registrato nella memoria procedurale, nei primi all’incirca tre mesi di vita, e nella memoria implicita o non dichiarativa, caratteristica dei primi circa tre anni di vita, è quindi, concettualizzabile come Beta.

Kohut e la psicologia del Sé.

Kohut è stato lo psicoanalista che, negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo, ha inaugurato tutto quel filone che in America e poi nel mondo viene chiamato Psicologia del Sé. Kohut ha ipotizzato l’esistenza di un Sé rudimentale fin dalle primissime fasi della vita, partendo dalla constatazione che l’ambiente umano reagisce al neonato come se già fosse dotato di un Sé. Il neonato non ha alcuna consapevolezza riflessiva di sé, non è capace di sperimentare se stesso, neanche oscuramente, come unità coesiva nello spazio e durevole nel tempo. Eppure è fuso “ attraverso un’empatia reciproca con un ambiente che lo vive come se già possedesse un sé, un ambiente che non solo anticipa la successiva distinta autoconsapevolezza del bambino ma che già, attraverso la forma stessa e lo stesso contenuto delle proprie aspettativa, comincia ad incanalarla in specifiche direzioni” (Kohut, 1977). Nel momento in cui la madre vede per la prima volta il proprio bambino, ha inizio il processo attraverso cui si stabilisce il sé della persona. Questo sé rudimentale che Kohut chiama Sé nucleare, non si forma né attraverso l’incoraggiamento o l’apprezzamento coscienti, né attraverso lo scoraggiamento o il rifiuto coscienti: la rispondenza degli oggetti-Sé ha, invece, radici profonde, inconsce ed è, in ultima analisi, una funzione dei Sé nucleari degli stessi oggetti Sé. Così Kohut contrappone così il “suo” bambino che deve apprendere totalmente dall’ambiente oggetto-Sé al bambino della Klein, secondo la quale nella primissima infanzia sono già presenti, in modo rudimentale, specifiche fantasie, ed anche al bambino di Freud, dotato di pulsioni “perverse polimorfe” che devono essere trasformate per crescere e per poter vivere in mezzo agli altri. Possiamo affermare che la regolazione affettiva/emozionale, per Kohut, viene effettuata dal sistema Sé/Oggetto Sé che deve rispondere empaticamente in maniera adeguata ai bisogni d’ Oggetto-Sé del bambino . Rispetto ad altri modelli c'è una maggiore enfasi sul soddisfacimento empatico dei bisogni del Sé da parte degli Oggetti-Sé, quindi una maggiore responsabilità assegnata all'accudente rispetto al contributo del bambino e ad un'idea di maggiore concordanza. Kohut descrive (1981, 2003) l’empatia utilizzando la scena di un bambino che si distacca carpini dalla madre “ Il bambino come fanno tutti i bambini, stava aggrappato alla madre. Ma il sole splendeva e i piccioni camminavano tutto intorno. Ad un tratto, il bambino avvertì una carica nuova, una spinta ad osare e si allontanò dalla madre dirigendosi verso i piccioni. Fece tre o quattro passi e poi si volse. L’interpretazione generale a questo punto, è che il bambino è ansioso, vuole essere sicuro che può tornare indietro per essere accolto di nuovo nelle braccia materne, essere cullato ecc. penso che tutto questo sia vero. Ma qualcosa di molto più importante è vero. Vuol vedere il sorriso d’orgoglio della madre per la sua conquista. Vuol vedere il suo orgoglio: “Guardalo adesso che si allontana da solo, non è meraviglioso?”. In quel momento è successo qualcosa di estremamente importante. Una prima forma di empatia, a livello corporeo, espressa nel tenere n braccio, toccare odorare, viene ora manifestata solo con l’espressione del viso e, forse più tardi con le parole: “Sono orgogliosa di te bimbo mio”. Ora questa è un’interpretazione, o perlomeno il parallelo dell’interpretazione in psicoanalisi. Come? Ve o già detto. C’è una comprensione che è una sorta di contenimento corporeo, una fusione , che più tardi viene abbandonata (in persone molto malate, può passare molto tempo prima di compiere il passo successivo). Poi, quando è stato fatto il passo successivo, si passa ad un livello molto più elevato di empatia, un’empatia di tipo complesso con spiegazioni del passato, di come il presente lo ripeta e di tutte le forze che sono implicate. Esprimere tutto questo è ancora una volta empatia. E’ ancora una volta la comprensione psicologica del messaggio, una comprensione di livello più alto. Penso che questo sia estremamente importante, e mi fa vedere che quello che veramente occorre indagare con attenzione indagare è ciò che io ho chiamato la linea evolutiva dell’empatia, dai suoi inizi arcaici a livelli così evoluti che quasi non occorre toccarsi, dove quasi non si conserva traccia del contenimento originale che comunica comprensione empatica. Ecco, questo in sostanza vi dice che cosa io penso dell’empatia.”

Anche se autori successivi come Bacal hanno sottolineato la necessità che anche il bambino si presti a svolgere funzioni di Oggetto-Sé nei confronti del genitore. Rispetto al problema dell'interiorizzazione a seguito di “fallimenti ottimali”, il bambino gradualmente abbandona la fusione con l'oggetto primario, ed interiorizza il sistema sé/Oggetto-Sé, anche se continuerà ad avere rapporti con oggetti-sé più maturi. Kohut (1981):” La psicologia del Sé sostiene che le relazioni Sé/oggetto-Sé costituiscono l’essenza della vita psicologica dalla nascita alla morte, che il passaggio da uno stato di dipendenza (simbiosi) ad uno di indipendenza (autonomia) nella sfera psicologica è tanto impossibile e non desiderabile quanto il passaggio, nella sfera biologica, da una vita che dipende dall’ossigeno ad una vita indipendente da esso. L’evoluzione che caratterizza la vita psicologica normale, deve essere vista nella natura mutevole dei rapporti fra il Sé e i suoi oggetti Sé, e non nell’abbandono da parte del Sé dei suoi oggetti-Sé.” Kohut si rese presto conto che il vissuto dei pazienti narcisistici non poteva essere letto attraverso la cornice teorica classica del conflitto, che finiva così per non affrontare le dimensioni cruciali dell’esistenza dei pazienti narcisistici: Grandiosi e pieni di sé esteriormente, ma con un vissuto cronico di vuoto e inadeguatezza. Questo lo porta a rivedere la teoria freudiana del narcisismo (primario e secondario): L’amore per il sé è davvero nemico dell’amore per gli altri? Non potrebbe essere che i sentimenti positivi verso sé contribuiscano a rendere più ricchi e vitali gli incontri con gli altri? “ Per lo più sinora è stato operante il tacito presupposto, anche se spesso negato in sede teorica , secondo cui la capacità di amore oggettuale è il segno della maturità emotiva. Ciò implicava sempre che lo sviluppo normale conduce dalla cura di sé alla cura per oggetti, dall’interesse per sé all’interesse per gli altri, e più semplicemente dall’egoismo all’altruismo” “In sede teorica si è spesso affermato che il termine narcisismo non è un giudizio di valore”. “Ciò che ho presente è il fatto che, fino a tempi recenti, il narcisismo veniva considerato negativamente dal punto di vista di un aprioristico giudizio di valore. Ci sono infatti molte forme di narcisismo, come ci sono molte forme di amore oggettuale, alcune carenti sotto il profilo dell’adattamento. Considerato in sé il narcisismo non deve essere confuso con una condizione che sia in termini valutativi meno positivo dell’amore oggettuale Il narcisismo non si contrappone alle relazioni oggettuali; non è il contrario dell’amore oggettuale; alcune delle più intense relazioni oggettuali sono essenzialmente narcisistiche. Il narcisismo deve essere valutato, in stretto parallelismo con l’amore oggettuale, negli stessi termini evolutivi e maturativi: presenta un ordine evolutivo da un prima a un dopo, da primitivo a sviluppato, da immaturo a maturo. La comprensione dei vissuti dei soggetti narcisistici si può avere solo se si sposta l’attenzione sui problemi del primo sviluppo anziché sulle questioni relative al conflitto pulsionale (Deficit). Secondo tutti gli autori psicoanalitici la prima infanzia è caratterizzata da un vissuto che è stato definito di onnipotenza, grandiosità; secondo gli autori classici queste fantasie infantili rappresentano qualcosa di immaturo e irrazionale che bisogna superare per lo sviluppo di legami più realistici con gli altri. Secondo Kohut questo vissuto ha in sé una vitalità e creatività che spesso manca agli adulti; lo sviluppo di un narcisismo sano dovrebbe consentire di mantenere queste caratteristiche vitali, insieme alla capacità di stabilire dei legami maturi con gli altri. Il narcisismo è pienamente compatibile con intense relazioni oggettuali. Molte relazioni oggettuali servono a scopi narcisistici. Vi sono oggetti che hanno per noi una grande importanza ma che servono finalità narcisistiche. Il narcisismo è pienamente compatibile con intense relazioni oggettuali. Molte relazioni oggettuali servono a scopi narcisistici. Ha un grande significato distinguere fra relazioni oggettuali al servizio di finalità narcisistiche e l’amore per l’oggetto, che si ha quando l’altra persona è ardentemente desiderata, ma nello stesso tempo è riconosciuta e investita d’interesse, amore, libido in quanto essere umano indipendente con finalità proprie, indipendentemente dall’innalzamento dell’autostima. Anche se amore oggettuale e narcisismo seguono linee evolutive diverse, c’è sempre un certo rinforzo narcisistico in ogni tipo di amore oggettuale. Questo non significa tuttavia che ci sia continuità fra narcisismo e amore oggettuale Es. innamoramento: amore maturo‡ fantasie di fusione. Importante: la mera presenza o assenza di relazioni oggettuali non dice nulla sulla disposizione narcisistica del soggetto e dunque sulla natura dei rapporti. Due tipi di oggetto: Oggetti a cui è riconosciuto e permesso di essere diversi, di avere propri desideri e interessi; questi sono amati non solo a dispetto delle differenze, ma proprio a causa delle differenze che integrano la propria sfera d’interesse. Oggetti investiti narcisisticamente: interessano solo nella misura in cui servono ad alimentare le mete narcisistiche. Non c’è rapporto umano che non contenga insieme tracce di amore narcisistico e amore oggettuale. Oggetto-sé: ruolo svolto dalle altre persone nei confronti del sé in relazione ai suoi bisogni. Gli oggetti-sé devono essere visti come funzioni, più che come persone; la separazione dall’oggetto non può mai avvenire e lo sviluppo si configura pertanto come allontanamento da oggetti-sé arcaici per rivolgersi ad oggetti-sé maturi. Il sé sano si sviluppa all’interno di un ambiente che consenta di fare tre esperienze di oggetto-sé: oggetti che confermino l’innato senso del bambino di grandezza e perfezione (bisogni di specularità) oggetti da poter ammirare e idealizzare (bisogno di idealizzazione) oggetti che suscitino nel bambino una sensazione di essenziale uguaglianza con lui (bisogno di gemellarità). Lo sviluppo avviene contemporaneamente sia sull’asse narcisistico che sull’asse dell’amore oggettuale. I lattanti, crescendo, cercano di riconquistare la perduta perfezione del primitivo legame madre – bambino ricorrendo a due strategie: Sé grandioso e l’immagine genitoriale idealizzata. Il Sé bipolare quindi è capace di esprimere i propri ideali, le proprie ambizioni e i propri talenti. Questi precoci stati della mente contengono il nucleo del narcisismo sano e dovrebbero essere assecondati in modo tale da potersi trasformare lentamente da soli semplicemente attraverso il contatto con la realtà. Se nell’ambiente (sostegno) si presentano delle frustrazioni ottimali che il bambino riesce a tollerare, a poco a poco sarà in grado di ridimensionare le immagini esagerate del sé e degli altri fino a raggiungere proporzioni più realistiche. Il soggetto, attraverso il processo di interiorizzazione trasmutante, sostituisce gli oggetti-sé esterni attraverso l’interiorizzazione dei loro aspetti funzionali ed inizia a costruire la struttura interna di un sé solido e maturo. Il trauma si verifica quando (1) il bambino è trattenuto in una fase evolutiva o maturativa sebbene sia pronto a procedere in avanti o quando (2), viceversa, un gradino maturativo viene imposto troppo precocemente e improvvisamente. Esempi: 1. La madre persiste nel vedere il bambino come parte del proprio Sé corporeo in un momento in cui egli aspira a mettere alla prova la propria capacità d’iniziativa. Il bambino aspira a vedere la madre come un essere che gode di una propria libertà e che non è immediatamente influenzato dai suoi stati d’animo. 2. La madre pretende dal bambino che egli di colpo rinunci a lei dopo essere stato totalmente coinvolto nel rapporto. Centrale è dunque la capacità empatica della madre, che le consente di cogliere il momento esatto in cui la separazione dall’oggetto è possibile. La mancata risposta empatica dei genitori causa un arresto dello sviluppo, che impedisce la trasformazione del Sé grandioso in sane ambizioni, e l’interiorizzazione dell’immagine genitoriale idealizzata come ideali e valori. Kohut, quindi, ha elaborato la funzione elaborativa dell'empatia dell'analista e la necessità di ascoltare esclusivamente dal punto di vista del paziente. Un altro contributo importante di Kohut è lo sviluppo dell’idea che alcune situazioni cliniche presentano una scissione dell’Io. Kohut chiama scissione verticale che permetterebbe ad atteggiamenti o convinzioni diverse di coesistere fianco a fianco, questo potrebbe essere messo a confronto con la scissione orizzontale della rimozione, per la quale ad un contenuto della mente è impedito l’accesso alla consapevolezza. La classica rimozione di Freud. Kohut descrive sintomi o atteggiamenti non vengono considerati accettabili anche solo da una parte della personalità, come lui descrive nella scissione orizzontale, ma vengono vissuti come un corpo estraneo isolato localizzato nella personalità. Questa scissione verticale , come vedremo più avanti, può essere chiaramente accostata auna forma di scissione profonda del Sé e anche al concetto di dissociazione. Altresì come espliciteremo più avanti nel corso di questo capitolo può essere visto in maniera simile al Falso Sé di Winnicott. La più sintetica rappresentazione del disturbo è data dal famoso specchietto che vede da una parte (a sinistra) il Sé grandioso e dall’altra il Sé sintomatico. Le due sono divise da una linea, a raffigurare la scissione verticale. Al di sotto un altra linea raffigura la scissione orizzontale che esclude il Sé nucleare (o reale). Il paziente oscilla a destra e a sinistra fra rappresentazioni del Sé ora inflazionate (il Sé attuale e il Sé ideale coincidono), ora svalutate (il Sé attuale si ritrova distanziato dal Sé ideale); e alla ricerca di un autenticità che non può darsi perché mai vissuta (la scissione orizzontale). Riprendendo l esempio che mi riguarda è come se il soggetto si sentisse Freud e volesse che tutti lo valutassero come tale, per scoprire poco dopo di non esserlo e dunque di non valere nulla; mentre le sue vere qualità si pongono sempre più al di fuori dell’orizzonte delle sue possibilità. Il disagio che ne deriva è ben descritto nella raffigurazione del uomo tragico : perdita di senso, vissuti di noia e di vuoto, angosce di frammentazione e, nel più disadattativo dei circoli viziosi, il narcisismo stesso (la ferita narcisistica porta alla formazione di una idealità grandiosa e alla perenne richiesta di un rifornimento narcisistico che lo confermi). Che cosa provoca la scissione verticale? Kohut riteneva che essa si producesse quando la madre premia un aspetto particolare della personalità del bambino, che è conforme ai desideri ed alle aspettativa di lei, ma trascura aspetti importanti della aspirazioni del bambino e dei suoi bisogni di riconoscimento.

I transfert di Oggetto-Sé.

Il nuovo punto di vista adottato porta a rivedere le tecniche attraverso le quali ci si era avvicinati ai soggetti narcisistici; per comprendere sul serio la loro esperienza ci si deve mettere dal loro punto di vista. Immersione empatica o introspezione vicariante :“Definiamo i fenomeni mentali, psichici o psicologici se la nostra modalità di osservazione comprende l’introspezione e l’empatia come elementi essenziali”. Non è vero che i soggetti narcisisti non sono in grado di stabilire il transfert, ma sviluppano delle particolari forme transferali (analoghe ai tre tipi di esperienze con gli oggetti-sé dell’infanzia), in cui l’analista non viene vissuto come un essere separato ma come una necessaria estensione del sé debole e immaturo del paziente. Nei pazienti questo si traduce in tre tipi di transfert: Transfert speculare: il paziente si rivolge all’analista per ottenere una risposta di conferma; tale risposta empatica è mancata nel rapporto con la madre e questo ha comportato un frammentazione del senso di sé grandioso Transfert idealizzante: il paziente vive il terapeuta come se questi fosse un potentissimo genitore la cui presenza consola e risana; la madre non si è identificata empaticamente con il bisogno del bambino di idealizzarla o non si è offerta come modello degno di essere idealizzato Transfert gemellare: il paziente ha bisogno di essere esattamente come il terapeuta; è mancata la risposta empatica dei genitori ai desideri fusionali del bambino (che gradualmente si trasformano in un comportamento imitativo). Compito del terapeuta è entrare in empatia con i bisogni del paziente per comprenderli e soddisfarli parzialmente; come il genitore imperfetto deluderà il paziente permettendo ai transfert narcisistici di trasformarsi; obiettivo della terapia diviene pertanto la coesione del sé e non necessariamente la capacità di amore oggettuale. Il sé con Kohut diventa il “nucleo della personalità”, il centro dell’iniziativa umana che mira “alla realizzazione del suo proprio specifico programma di azione. Certamente l’esperienza controtransferale è necessaria per entrare davvero nel mondo interno del paziente. Questo non garantisce il raggiungimento di una buona empatia ( se si rimane identificati controtransferalmente ci si limita a ripetere una scena interna, senza poterla comprendere ed interpretare) ma l’essere passati attraverso l’esperienza del controtransfert elaborandola permetterà lo sviluppo di una empatia ampia e profonda. La resistenza maggiore è quella che si può chiamare “una paura di non ripetere”, il terrore di un cambiamento. Questo è collegato ad una struttura difensiva che agisce come “una resistenza ostinata al cambiamento smantellando e impedendo il consolidamento di nuove strutture dell’esperienza”. Piuttosto che essere evocato dal fatto di vivere il terapeuta come non responsivo o non empatico, esso viene scatenato quando il terapeuta viene percepito come un alleato affidabile nella indagine empatica nei recessi più profondi dell’esperienza soggettiva del paziente. Questa angoscia si presenta quando si sente che la terapia sta illuminando e minacciando qualche principio inconscio, di organizzazione dell’esperienza del sé , un principio in cui probabilmente continuava ad esistere l’essenza di un legame arcaico con agente delle cure primarie. Questa profonda resistenza al cambiamento tiene i pazienti imprigionati nei gulac della loro mente. Kohut ha sottolineato i bisogni di oggetto-sé del bambino, la sua lotta per vivere e riconoscere il sé come centro di iniziativa, ma questa attenzione su ciò di cui ha bisogno dall’altro può aver eclissato il modo in cui l’altro è assorbito nel sé ed agisce per sabotare dall’interno lo sviluppo e l’autonomia. L’accento su ciò che manca, sul deficit, per quanto importantissimo, può aver bisogno di essere controbilanciato dalla consapevolezza delle strutture psicopatologiche che sono presenti. L’articolazione da parte di Kohut dei bisogni d’oggetto-sé del bambino ha aiutato i clinici a vedere come le risposte erronee d’oggetto-sé da parte delle figure di riferimento vengono interiorizzate in modo tale che l’esperienza di sé della persona continua ad essere deviata , come un oggetto interno che perpetua risposte “Anti oggetto-sé” dall’interno distorte e dannose. Forse nelle formulazioni di Kohut questa era un’idea implicita ma non è stata mai resa esplicita da lui.

Considerazioni su Bion, Winnicott e Kohut.

Tutti e tre questi autori vertono su un principio basilare evolutivo, che i genitori sufficientemente maturi dal punto di vista psichico assolvono al compito di essere una regolazione affettiva per il bambino supportandolo nelle criticità che incontra per forza di cose per via della sua ancora immatura ed incompleta organizzazione psicobiologica. Questo modello psicoanalitico è stato confermato anche dalla ricerca psicobiologica di Hofer (2014) che ha dimostrato come negli stadi diadici “simbiotici i sistemi omeostatici interni del bambino immaturi e in via di sviluppo, siano regolati a livello interattivo dal sistema nervoso della figura di accudimento più maturo e differenziato. Queste esperienze “somatopsichiche” regolate e non regolate con la figura di accudimento sono registrate e conservate nella memoria implicita che si forma precocemente nell’ambito del sistema orbitofrontale e delle sue connessioni corticali e sottocorticali come rappresentazioni interattive. Queste vanno a formare il primo nucleo del sé implicito che creerà l’inconscio non rimosso, che andrebbe distinto dalle memoria implicita ( vedi paragrafo sull’inconscio non rimosso). Per utilizzare meglio le proposte cliniche di Kohut sarebbe più opportuno lasciare l’espressione “disturbo narcisistico della personalità” ed optare per quello che scelse lo stesso Kohut negli ultimi lavori, così avremo una convergenza più similare al linguaggio Bioniano ma soprattutto Winnicottiano, di “disturbi della coesione del Sé”. E’ l’esperienza del riconoscimento personale a costituire, secondo Winnicott e Kohut, l’essenza del concetto di rispecchiamento. Non è una conferma del proprio senso di onnipotenza ciò di cui il bambino ha bisogno, ma un riconoscimento della propria unicità e capacità creativa, vale a dire del proprio vero Sé. Kohut ben comprese che espressioni usate prima da lui come “grandiosità arcaica del Sé” non rendessero appieno questo significato, e da allora dice Bacal (1993) la Psicologia del Sé se ne è staccata progressivamente. Per Winnicott la debolezza del infante è colmata dalla cura e dal sostegno della madre. Winnicott chiamava questo, come abbiamo visto ambiente di Holding. Kohut (1977) riferendosi alla stessa funzione, introdusse il concetto di matrice di Oggetto-Sé in cui il bambino nascerebbe. Una relazione arcaica d’oggetto-Sé adatta a sostenere e favorire lo sviluppo del Sé del bambino. L’holding quindi per Winnicott è il fondamento di ciò che diverrà per gradi un essere consapevole di Sé. La psicologia del Sé dice Bacal(1993) offre una prospettiva molto simile, considerando il soddisfacimento dei bisogni d’oggetto-Sé arcaici del bambino il fondamento dello sviluppo di un Sé sano e coeso. I concetti Winnicottiani di vero e falso Sé arricchiscono la teorizzazione kohutiana della scissione verticale ed orizzontale. La scissione verticale, in cui il Sé si scinde in una parte che si vive inferiore ed una si considera grande (la cosiddetta grandiosità arcaica o infantile), è a ben guardare un’altra espressione per indicare lo stesso concetto di un’organizzazione falso Sé. L’accresciuta rilevanza di uno di questi stati del Sé comporta automaticamente la sconfessione dell’altro. Con l’espressione “scissione orizzontale” Kohut indica la rimozione di quello che Winnicott chiama il vero Sé o Sé reale. Vi è un interessante parallelo dice Bacal(1993) fra la tesi di Winnicott secondo cui il falso Sé protegge il vero Sé fino a quanto l’analista arriva a permettere al paziente di sentirsi abbastanza sicuro da comunicare con lui attraverso il suo vero Sé, e l’ammissione di Kohut che l’analisi si compie prima nell’area della scissione verticale e solo successivamente in quella scissione orizzontale. Per Winnicott e Kohut il Sé si origina da uno stato di reciproca sintonizzazione/corresponsione del neonato con la figura di accudimento primario. L’accento non è posto come in genera fa la psicoanalisi “classica” sulla frustrazione né sull’aggressività, come nella scuola Kleiniana, ma sulla possibilità o no di esperire una continuità d’essere, una presenza capace di sostenere, di gratificare. Una madre che dica “SI” soprattutto quindi una risposta non frustrante, o più precisamente “sufficientemente non frustrante”. E’ il caregiver che assicura, che offre e stabilizza e dà al soggetto il senso di unità e di identificazione che darà un valore alla propria esistenza. Se si verifica un difetto in questo processo da parte della figura di riferimento, non si struttura la continuità dell’essere o di un oggetto-Sé maturo e al suo posto si aprirà un buco un vuoto che verrà riempito o da un eccesso di mente (fino al delirio) o con il corpo attraverso un disturbo psicosomatico (vedi Winnicott). In Bion il processo di continuità dell’essere già deve essere stabilito per creare quello stato di assenza dove poter proiettare (identificazione proiettiva) quegli elementi beta non mentalizzabili ancora del neonato, che dovranno essere digeriti, attraverso la funzione alfa materna e dalla capacità contenitive della madre. Un importante elemento d'accordo tra Winnicott e Bion mi sembra rappresentato dall'importanza da loro riconosciuta alle capacità funzionali della madre per quel che riguarda il sano sviluppo dell'infante. Per Winnicott la qualità della relazione madre bambino risulta legata a quella capacità materna che egli definisce "preoccupazione materna primaria". Winnicott considera tale qualità come una capacità della mamma di "ammalarsi", d'impazzire temporaneamente, come egli dice, per potersi mettere in una posizione mentale empatica che le consente di comprendere e di assecondare i primitivi bisogni del bambino. "Questo stato mentale, organizzato", scrive, di cui è capace solo una madre sana, "potrebbe essere paragonato ad uno stato di ritiro.., ad uno stato di dissociazione, ad una fuga o perfino ad un disturbo più profondo, quale un episodio schizoide.." . Dovrebbe essere considerato una vera e propria malattia se non fosse per la sua transitorietà e la sua funzione. Tale condizione consente infatti alla madre di "raggiungere uno stato di elevata sensibilità" indispensabile "all'inizio della vita del bambino" perché questi possa accedere alla "strutturazione dell'Io"; "se la madre si adatta sufficientemente bene al bisogno, la continuità di vita del bambino verrà disturbata molto poco dalle reazioni alle pressioni ambientali" . Tale posizione funzionale, per quanto specifica della primissima infanzia, trova accordo con modalità più estese ed evolute indicate da Winnicott nel termine "madre sufficientemente buona" o "ambiente facilitante" . Mi sembra di poter rintracciare in tale posizione elementi significativi di accordo con la funzione di "rêverie" descritta da Bion come quella capacità materna di trattare i dati sensoriali inelaborabili dalla coscienza rudimentale dell'infante: "La capacità di rêverie della madre è l'organo recettore della massa dei dati sensoriali sul proprio sé raccolti dalla coscienza del neonato....(in quanto) la personalità del neonato non è in grado da sola di fare uso dei 'dati sensoriali', ma deve evacuare questi elementi dentro la madre, affidandosi a lei perché faccia tutto ciò che è necessario per convertirli in una forma adatta per l'impiego da parte del bambino" . Si tratta di dati sensoriali, ma tali dati conducono con sé emozioni e angosce. Infatti, anche se la pre concezione è una disposizione congenita, che include 'l'aspettativa innata del seno', tuttavia nel tempo dell'attesa l'assenza si carica di un sentimento prossimo all'angoscia di morte. Tale angoscia di morte, intrattabile dalla coscienza del neonato è posta come forza attiva nella ricerca di un oggetto (la madre) in grado di contenerla e di metabolizzarla in sua vece al fine di restituirla digeribile ed integrabile dal neonato stesso. E così "si ha uno sviluppo normale se il rapporto tra neonato e seno permette al neonato di proiettare un sentimento, ad esempio quello di stare per morire, dentro la madre, e di reintroiettarlo, dopo che la sua permanenza nel seno l'ha reso tollerabile per la psiche infantile" . Come risulterà abbastanza evidente, i due autori attribuiscono un posto diverso all'infante e alla madre; un diverso valore ai fattori da loro messi in gioco nella relazione, così come al carattere della relazione stessa. Per Winnicott il bambino molto piccolo esprime fondamentalmente bisogni corporei che la madre dovrebbe accogliere e sostenere attraverso la sua capacità di immedesimazione empatica . Winnicott non ritiene infatti che il bambino possieda immediatamente capacità identificatorie, che egli ritiene processi sofisticati e complessi, evolutivamente successivi alla prima strutturazione dell'Io. La strutturazione dell'Io si basa su una 'continuità dell'essere' sufficiente, non interrotta dalle reazioni all'urto dell'ambiente. Winnicott pone quindi i bisogni infantili a fondamento di una relazione necessariamente asimmetrica in quanto marcata dalle capacità materne (di identificazione e di holding). Bion, da parte sua, pone a fondamento della relazione primaria le angosce (di morte) intollerabili che accompagnano nel neonato l'assenza originaria dell'oggetto. La ricerca del seno del neonato bioniano è guidata dall’"'identificazione proiettiva" ed è pertanto segnata da una simmetria comunicativa (il meccanismo identificatorio) e da una asimmetria funzionale (la funzione di rêverie della madre . Occorre qui far distinzione tra l' "identificazione proiettiva", come meccanismo di difesa psicotico, descritto dalla Klein nel suo lavoro "Note su alcuni meccanismi schizoidi" (1946) come il meccanismo attraverso cui parti della personalità (che includono oggetti interni cattivi come l'invidia del seno) vengono scisse e proiettate negli oggetti esterni; e l' "identificazione proiettiva normale" formulata da Bion come il meccanismo primario di evacuazione delle angosce al fine di una comunicazione e di uno scambio primitivo con l'ambiente materno.

Angosce", "agonie", e difese

Così come la frustrazione (assenza tollerata e tollerabile) si propone come fattore propulsivo dello sviluppo e della formazione dell'identità), cosi la carenza (la presenza impropria o l'assenza intollerabile) determina il fallimento precoce del neonato nei suoi processi formativi dell'identità. Laddove l'ambiente (la madre carente o "non sufficientemente buona", o la madre con ridotte capacità nell'esercizio della rêverie) espone l'infante a frustrazioni precoci e laddove le frustrazioni sono eccessive (intense e ripetute) si determinano condizioni d'esperienza intollerabili. E' ciò che Winnicott definisce "agonie primitive", e Bion definisce "terrore senza nome". Col termine 'agonia primitiva' Winnicott intende indicare l'impensabile stato di cose che sottostà alle organizzazioni difensive precoci le quali hanno preso il posto del collasso psico/somatico (crollo) determinato da fallimenti precoci e intensi dell'ambiente. Winnicott non ritiene che il neonato possieda la capacità psichica di vivere un'angoscia, tanto meno di morte, ed è per questo che "un eccesso di reazioni non genera frustrazione ma una minaccia di annichilimento" (altrimenti definita come "angoscia agonica di annientamento"). Si tratta, egli aggiunge, di "un'angoscia primitiva molto reale (quasi fisica), che precede di gran lunga qualunque angoscia che includa la parola morte nella sua descrizione" . Per Winnicott l'elemento somatico prevale su quello psichico e la condizione agonica precede la possibilità di fare esperienza di angosce di morte, che si propongono come espressione depotenziata ed evoluta di questi stati agonici sottostanti. Per Bion il terrore senza nome rappresenta ugualmente l'esito infelice di fallimenti materni nell'esercizio della rêverie, ma il presupposto è costituito dalle angosce di morte che accompagnano l'attesa ricerca del seno. "Se la proiezione (delle angosce intollerabili) non viene accolta dalla madre", scrive, "il neonato sente che la sua sensazione di stare per morire (piuttosto che venir metabolizzata in sua vece) viene spogliata del suo peculiare significato: reintroietta perciò non una paura di morire resa tollerabile, ma un "terrore senza nome" . In ogni caso (sia per Bion che per Winnicott) per tentare di evitare il crollo connesso ai fallimenti ambientali l'infante è costretto in qualche modo a predisporre delle difese che lo spingono in prima istanza a svolgere attività di supplenza nei confronti di funzioni materne senza averne le capacità: "i compiti lasciati inevasi dal fallimento della capacità di rêverie della madre vengono assunti forzatamente dalla coscienza rudimentale" del neonato . Contemporaneamente l'infante è costretto ad evitare l'esperienza dell'ambiente in quanto il mediatore funzionale materno è divenuto inaffidabile. L'onnipotenza, necessaria inizialmente a garantire una relazione positiva con l'ambiente, si pone adesso concordemente come una componente essenziale delle difese che il bimbo molto piccolo è costretto a usare come funzione sostitutiva di quell’ "'apprendere dall'esperienza" che una madre non adeguatamente capace di svolgere una funzione di rêverie ha reso impraticabile . L'onnipotenza è adesso legata (per Winnicott e Bion) alla necessità di dover comunque fare a meno dell'ambiente, di doversi sostituire all'ambiente, o di dover sostituire elementi intollerabili dell'ambiente con elementi estratti dal proprio mondo interno, per quanto ancora precario nella sua stessa costituzione. Tra queste difese reazioni onnipotenti nei confronti dell'ambiente (e dei suoi urti) si pongono quel che Winnicott chiama "self holding" o "auto-contenimento, e quel che Bion definisce come "modificazione" o "fuga" dalla realtà o in quello che Bion chiama “trasformazione in Allucinosi”. La Gaddini (1981) accomuna la paura del crollo di Winnicott con il terrore del cambiamento catastrofico descritto da Bion, e dice che sono entrambe l'equivalente della paura con cui ci si può incontrare, nel corso dell'analisi, e che mantiene il paziente disperatamente coeso e timoroso di cambiare, come se si trovasse sull'orlo di una catastrofe o di un precipizio. Ricordiamo che per Bion la paura di un cambiamento catastrofico avviene in prossimità di una “trasformazione in “O”” che viene inteso però positivamente da Bion se riesce in quanto è un fenomeno che marca un brusco salto nella evoluzione o crescita mentale. (Corrao,1981). Le trasformazioni in allucinosi susseguenti ad un evento catastrofico , per assenza di contenitore della figura accudente primaria, lascia il soggetto senza poter assorbire una funzione contenitiva in se stesso, lasciandolo alle prese con agglomerati di elementi Beta non assorbibili dalla propria mente. L’allucinosi produrrà quindi oggetti irreali in una realtà deprivata di ogni significato personale, proprio come una esistenza all’ombra del Falso Sé di cui parla Winnicott. Kohut e Bion benché molto distanti possono avere, secondo Mollon (2002) dei legami che li unirebbero. Come Kohut Bion dà rilievo all’empatia e alla responsività del caregiver/analista. Ma mentre il rispecchiamento di Kohut è modellato sulla risposta piena di ammirazione all’esibizionismo del bambino da parte dei genitori-“ Dopo che la separazione psicologica ha avuto luogo, il bambino ha bisogno del luccichio negli occhi della madre per conservare la coesione narcisistica- Bion sottolinea invece la risposta dei genitori alle angosce del bambino piccolo (genitore/funzione). La funzione alfa della madre che bonifica gli elementi beta angoscianti del bambino fanno capire chiaramente che qui Bion non parla della madre come di un oggetto d’amore rispecchiante, ma delinea alcune delle funzioni della madre necessarie per sostenere la psiche in evoluzione del bambino. Come Kohut anche Bion descrive i fallimenti empatici e di responsività emotiva. Il fallimento della madre a ricevere, pensare e disintossicare l’emozione del bambino piccolo (spesso aggiungendovi la propria angoscia) ha come risultato che il bambino viene lasciato senza una comunicazione significativa, ma con un “terrore senza nome”, con Kohut il fallimento empatico dell’oggetto-sé porta ad un’angoscia di frammentazione della coesione del sé. Ma credo che la cosa che li accomuna maggiormente sia che entrambi siano interessati alla responsività della madre al bambino, ed allo stesso modo a come il terapeuta ascolta il paziente. E’ ben noto il suggerimento di Bion (1971) di ascoltare senza il desiderio di trarne prematuramente un significato, di disporsi senza una mente “saturata”. Kohut in modo simile richiama: Niente interferisce in modo così drammatico con la possibilità profondamente un paziente quanto una conclusione prematura. Se si pensa di sapere, allora, ci si priva della possibilità di recepire tutta una serie di elementi con quel piacevole atteggiamento di perplessità e di attesa, fino al momento in cui compare una configurazione del tutto inaspettata” (1986). Per Grotstein Winnicott nella sul concetto di “preoccupazione materna primaria” descrive un'esperienza normale e necessaria di essere un tutt'uno transitorio tra il lattante e la madre, in un modo molto simile alla reverie proposta da Bion- la madre deve diventare il bambino, proprio come l'analista deve diventare l'analizzando in una trasformazione in O. Grotstein propone che la reverie bioniana e la preoccupazione materna primaria winnicottiana descrivano entrambi uno stato transitorio in cui si è un tutt'uno (at-one-ment)-il divenire bioniano di O- in cui la comunicazione è implicita, senza bisogno di identificazione proiettiva. L'identificazione proiettiva inizia quando si interrompe l'incantesimo dell'essere all'unisono, quando il lattante sperimenta il venire meno di essere un tutt'uno con la madre. Quando si sperimenta l'assenza che deriva dalla separazione. Secondo Kohut, spiega Fornaro (2001), lo sviluppo psichico-fisico della persona avviene in un contesto prettamente narcisistico. Il senso di essere “Io” (Sé, unità corporea) proviene dallo sguardo di ammirazione che la madre riserva al neonato. Quindi è dalla madre dal suo volto, dal suo sorriso- compiaciuta dio fronte ai progressi/prodezze del piccolo ed anche al suo semplice esserci, a rimandare ad esso un’immagine di sé che concorrerà alla sua crescita psicofisica. Quindi la sua specificità personale, ovvero il suo sé. Risulterà fondante ed orienterà il suo atteggiamento materno che risponde ad un corpo, quello appunto del neonato, già di per sé pieno di aspettative e desideri per come la madre lo percepisce, per come gli parla, per come ne immagina le emozioni e i bisogni (fame malessere ecc). Per Bion, invece prosegue Fornaro (2011), la funzione materna è resa possibile da ciò che Bion chiama reverie, cioè la qualità di immedesimarsi, tramite un pensiero preconcettuale ed empatico, nei vissuti del neonato, per restituirglieli mentalizzati e predigeriti. Si potrebbe dire come afferma Fornaro che la madre potrebbe arrivare a sentire nel proprio corpo ciò che il bambino sperimenta confusamente, con la differenza che può darvi un senso e quindi trovare una risposta emotiva-cognitiva adeguata. Consistendo in una sorte di comunicazione “viscerale”, presimbolica, tra madre e bambino, la reverie materna presuppone un’area proto-mentale, posta alla frontiera somatopsichica, Su questo modello relazionale somatospichico tra madre-bambino si costituisce l’importante funzione mentale di contenimento, ovvero la capacità di legare ed elaborare gli elementi beta da parte del bambino stesso; in senso psichico, “contenitore” e “contenuto” sono innanzitutto parti dell’apparato della funzione alfa della madre. Quando Bion (1970) chiede all’analista di mettere da parte memoria e desiderio, penso che si aspetti che l’analista possa tollerare lo stato di non integrazione. Quindi gli sta chiedendo di rinunciare alla teoria posseduta e di rimanere in uno stato in cui il significato è frammentario e nebuloso . Bion quindi chiede di non chiudere lo spazio vuoto assente di significato, operando una integrazione forzata, una organizzazione del materiale in termini di teoria dettata dal panico, perché quello spazio vuoto è la finestra attraverso la quale il nuovo può essere intravisto. Quello che non menziona può essere la questione che questo spazio vuoto può giacere sul bordo di un abisso dal quale la follia repressa dell’analista anche sano potrebbe essere improvvisamente minacciato. Nei suoi seminari nell’ultima parte della sua vita però credo che lo faccia capire molto bene. Che poi la minaccia si possa materializzare o meno dipende da ciascun analista e dalla natura delle strutture del suo Holding. Quando l’analista non riesce a sostare in queste aree d’incertezza e di non integrazione, quindi fare l’analista che tiene insieme le cose e fa sentire al sicuro il paziente, è più simile ad un conducente sul sedile posteriore sempre della macchina di prima, quindi ci sarà un passeggero ansioso che non può rilassarsi e che costantemente dice al guidatore quello che deve fare. Al paziente in questo modo non è concesso uno spazio per creare una naturale integrazione con i propri tempi, ma viene spinto alla concretezza dallo stesso analista che in questo modo mette di nuovo in atto per il paziente il “trauma” originale dell’integrazione prematura che ha portato alla non riuscita sana integrazione psico-somatica. La teoria psicologica, quindi, ci suggerisce Manica (2016) è senz’altro di derivazione bioniana. Manica afferma” E’ quella del Bion delle oscillazioni alfa- beta K- O contenitore-contenuto Ps-Pd Cn-Fp. Dove la cosa in sé tanto nella realtà psichica quanto nella realtà materiale, non può essere colta se non nella dimensione della finzione. La finzione del sogno, la fiction di O che, in quanto verità sulla realtà ultima oscilla continuamente tra il terrore e l’estasi, tra l’azione e l’illusione. E’ la cosa della “non-cosa” che, senza il sogno, senza la narrazione, senza la creatività generata dall’incontro di due menti, rischia di sprofondare nella traumaticità dell’irrappresentabile.” Per concludere si potrebbe ipotizzare che a proposito degli obbiettivi di una analisi i tre autori probabilmente avrebbero potuto rispondere in questi termini: Bion ”L’analisi può aiutarti soltanto a diventare te stesso. Non so se questo piacerà a te stesso e soprattutto non so se piacerà agli altri” invece Kohut forse si sarebbe espresso “ La psicoanalisi può aiutarti a diventare te stesso. Io sono molto entusiasta di ciò che stai diventando e sono abbastanza sicuro che anche tu potrai piacere a te stesso”, Winnicott invece avrebbe potuto dire” la psicoanalisi ti farà diventare te stesso e questo processo creativo ti farà essere reale e libero di sentirti “Vivo”. Per Bion è importante sapere e poter pensare (ovvero sapere trasformare gli elementi Beta in Alfa/pensieri) anche se questo ci possa far pensare cose che non ci piacciono, mentre per Kohut è l’elemento narcisistico che diventa il processo vitale per stare bene, invece per Winnicott, la cui preghiera era “Signore fa che io sia vivo quando sto morendo”, fa capire che l’essenziale della psicoanalisi per lui era raggiungere appieno lo stato di sentirsi “Vivo” e ciò significava l’essere liberi di sperimentare se stessi senza condizionamenti esterni (falso Sé) ed essere in grado di vivere in maniera sana l’integrazione psicosomatica, ovvero quel processo di “personificazione” che intendeva come “insediamento della psiche nel corpo”.

I Postbioniani: Il pensiero di Antonino Ferro.

Prima di affrontare il pensiero di questo geniale autore psicoanalitico italiano Antonino Ferro, sarà bene fare un breve excursus storico sul concetto di “Campo analitico”

La nozione di campo in psicoanalisi.

La nozione di campo è stata introdotta in psicologia a partire dalla metà degli anni ’50 sulla base di ricerche ed esperienze nei gruppi. Solo in un momento successivo l’idea di campo ha trovato spazio nel pensiero psicoanalitico ed è comunque rimasta ai margini delle correnti principali. Gli autori di riferimento sono Kurt Lewin,, Sigmund H. Foulkes e Wilfred R. Bion. Kurt Lewin (1951) definisce il campo, in ambito sociale e psicologico, come una totalità dinamica capace di produrre all’interno di un gruppo un senso di coesione ed appartenenza, che si manifesta con l’emergere del sentimento del «noi», di motivazioni e mete comuni ed implica una sorta di identità di gruppo con cui l’individuo fa corpo. La concezione di campo di Kurt Lewin (1948, 125) è resa particolarmente interessante dalla definizione connessa di legame di interdipendenza: «gli elementi del campo non sono necessariamente simili tra loro, ma una volta che si è stabilito un legame di interdipendenza, questa può essere più forte del legame basato sulla somiglianza». Ciò significa che un cambiamento di uno degli elementi del campo influenza necessariamente lo stato di tutti gli altri. Più o meno negli stessi anni, questi due autori portano avanti ricerche sul gruppo che, pur non includendo esplicitamente la nozione di campo, si basano su una visione sostanzialmente analoga. Foulkes mette a punto un modello di psicoterapia di gruppo basato sulla teoria psicoanalitica e contemporaneamente centrato su elementi assolutamente specifici del gruppo, che viene visto come «una vera e propria entità psicologica» (Foulkes, 1964), «un organismo vivente [… che] ha umori e reazioni, uno spirito, un’atmosfera, un clima» (Foulkes, 1948). Il concetto chiave dell’approccio foulkesiano è rappresentato dall’idea di rete, intesa in senso relazionale e sociale, di cui l’individuo rappresenta un nodo; qualsiasi comunicazione o evento all’interno della rete di un gruppo assume il suo significato grazie ad un sostrato comune, che Foulkes definisce matrice. La matrice costituisce il quadro di riferimento, «un fondo di comprensione inconscia, in cui si producono delle reazioni e delle comunicazioni molto complesse» (Foulkes, 1964). Le matrici sono gli elementi di base di uno spazio relazionale nel quale il soggetto cresce e si sviluppa, e vengono a costituire la gruppalità interna (Napolitani D., 1985), che va considerata come l’internalizzazione dei “giochi” presenti in tale spazio relazionale. Neanche Wilfred R. Bion (1961) utilizza il termine campo, ma le sue ipotesi sulla mentalità di gruppo, sul gruppo di lavoro e sugli assunti di base descrivono un insieme di forze, affetti, rappresentazioni e comportamenti collettivi in cui le produzioni ed i vissuti dei singoli prendono distanza dalla fonte individuale che li ha originati, confluendo in una sorta di medium comune, dotato di autonomia rispetto ai singoli individui. In aggiunta ai contributi contenuti in Esperienze dei gruppi (1961), è utile l’idea di «spazio beta» completa l’elaborazione teorica di Bion. Lo spazio beta è uno «spazio» di pensieri «non pensati» ed «impensabili», in rapporto con una sfera che include «costellazioni di elementi alfa» (Bion, 1992). Questo per quanto riguarda la nozione di “Campo” mentre Il concetto di “campo analitico” è una nozione nata negli anni sessanta da due psicoanalisti franco argentini Madelein e Willy Baranger. Questi due autori concepirono (1990) che la diade analitica potesse creare un campo dinamico. Una situazione tra due persone che rimangono ineluttabilmente connesse e complementari fintanto che condividono la situazione analitica e coinvolte in un singolo processo dinamico. In questa situazione nessun membro della coppia può essere capito senza l’altro. Nel campo analitico tutte le strutture emergenti ed attuali dipendono dall’interazione tra i due partecipanti.

Come è possibile per lo psicoterapista modificare le caratteristiche negative, costrittive o addirittura perverse che possono essersi determinate nel campo analitico? Per rispondere, almeno in parte, a questa domanda è necessario affiancare alla nozione di campo quelle di «funzione alfa» e di «sciogliere le emozioni in narrazioni». La Funzione alfa corrisponde alla capacità di operare trasformazioni sulle esperienze sensoriali, sulle tensioni e sulle emozioni, più in generale su tutti gli elementi esterni ed interni che sollecitano la mente e la personalità di un individuo. La strutturazione della Funzione alfa del bambino non avviene per sviluppo autonomo, ma si appoggia su quella della madre e delle altre persone che si prendono cura di lui. La madre inizialmente «digerisce» con la propria Funzione alfa le impressioni sensoriali che il bambino, ancora immaturo, non è in grado di metabolizzare. Successivamente, il bambino – appoggiandosi su quella della madre – struttura ed attiva la propria Funzione alfa. Alcuni modi dell’operare della Funzione alfa dell’analista durante la seduta possono essere chiariti facendo riferimento alla rêverie. La rêverie – come indica l’uso comune della parola nella lingua francese – è un’attitudine rilassata e sognante, un lieve fantasticare ad occhi aperti, senza obiettivi. Con riferimento alla situazione analitica, la rêverie corrisponde alla «capacità dell’analista di recepire comunicazioni del paziente pre-verbali o verbali, capacità di ricezione che è accompagnata da una concomitante attività di elaborazione». Emozioni ? narrazioni L’espressione «sciogliere le emozioni in narrazioni» (Neri, 2007) indica un approccio teorico e tecnico che dà grande importanza alla possibilità che un dato sentimento o vissuto possa essere espresso. L’importanza dell’esprimere – secondo questo approccio – è pari a quelle del comprendere e dare senso. Lavorando secondo questo orientamento, l’idea di trasformazione diviene centrale ed assorbe in larga misura quella di interpretazione. Va sottolineato che il concetto di narrazione è qui usato in un modo assai diverso da quello con cui è stato impiegato dagli psicoanalisti americani, ad esempio da Roy Schafer, che della funzione narrativa sottolineano soprattutto l’aspetto legato al costruttivismo ed al relativismo. Secondo Shafer (1983, 1992) è possibile considerare i «racconti della vita» via via prodotti nel corso dell’analisi, le teorie di riferimento dell’analista, l’interpretazione e la stessa relazione analitica come strutture o performance narrative, dotate in quanto tali di un carattere finzionale, mutevole e trasformabile. Nella prospettiva che sto proponendo, invece, il riferimento al narrare si lega alla possibilità di cogliere, dare forma e rendere quindi rappresentabile e pensabile qualcosa che è presente in modo implicito o soltanto su un livello emotivo. «Sciogliere le emozioni in narrazioni» significa operare una trasformazione attraverso cui emozioni e vissuti troppo addensati vengono espressi in parole, scene e narrazioni. La messa in parole cui mi riferisco non coincide con l’interpretazione classica, ma piuttosto ne rappresenta un precursore o un sostituto. Essa è caratterizzata dal fatto di essere, per alcuni aspetti (spontaneità, immediatezza, vicinanza con la dimensione pre-conscia), simile ad una libera associazione ed è caratterizzata, inoltre, dalla forma narrativa e per immagini. La nozione di «sciogliere le emozioni in narrazioni» può essere indicata anche con «emozione ? narrazione». Questa notazione (emozione ? narrazione) mette in luce non soltanto la trasformazione che ha come risultato l’espressione delle emozioni, ma anche l’operazione reciproca. Evidenzia, dunque, che la narrazione ha la capacità di fare emergere emozioni sino a quel momento disperse o avvertite soltanto come tensioni (Corrao, 1992; Neri, 2017). Le emozioni ed i sentimenti solitamente non sono considerati al pari dei pensieri come fattori organizzativi e di orientamento invece, l’emergere e l’esprimersi di nuove forme di sentimento sono fondamentali nel processo di conoscenza, cambiamento e complessiva ri-organizzazione che si attua in analisi. Seguendo questo approccio teorico e tecnico, anche il sogno non è visto come un testo da decifrare, ma piuttosto come una prima forma di espressione e contenimento di emozioni e vissuti, che potranno andare incontro a successive trasformazioni, attraverso il racconto del sogno in seduta ed il dialogo tra paziente ed analista (Friedman, 2002). Anche l’analista cha lavora con pazienti adulti può usare nei suoi interventi il linguaggio che l’analizzando sta adoperando in seduta. Può cioè proporre le sue osservazioni ed interpretazioni, non sotto forma di un meta-discorso che commenta ciò che il paziente sta dicendo, ma inserendosi direttamente nel filo del suo discorso. Antonino Ferro (2005) parla di «trasformazione co-narrativa» e di «cooperazione dialogica». La prima condizione necessaria perché questo tipo di interventi abbia successo è che lo psicoterapista abbia investito di interesse e partecipazione il linguaggio del paziente ed il mondo di persone, cose, fatti, idee, sentimenti che ne è oggetto. L’analista, in secondo luogo, non deve tradurre il discorso dell’analizzando nella lingua della psicoanalisi e poi ri-tradurre da questa nella lingua dell’analizzando; deve semplicemente parlare con lui. Il linguaggio della psicoanalisi rimane momentaneamente nella penombra della mente del terapista, anche se in qualche modo è presente nelle sue parole. Si potrebbe ridurre il concetto di campo ad una semplice questione di controtransfert, ma non è così. Infatti l’analista, per accogliere i pensieri nuovi ha bisogno di collocarsi nello stesso Luogo mentale abitato dal paziente. Infatti il paziente per riuscire ad accostarsi ad aree primordiali e indifferenziate della sua mente ha prima bisogno di collocarsi con l’analista in un’area comune, senza venire sommerso dalla paura dell’indifferenziato. In questo modo è possibile riprendere il contatto con dimensioni infantili che sono state zittite dalle dinamiche rassicuranti del già noto, e che ancora, nel qui ed ora, rischiano di essere taciute. Nel momento in cui analista e paziente abitano uno spazio comune l’interazione è ancorata agli stati pre-individuali della mente, mentre nel campo si aggirano pensieri possibile attraverso personaggi, scene, racconti traumatici, sintomi ecc. Il concetto di campo analitico, quindi, fa un passo in avanti rispetto alla logica relazionale transfert- controtransfert, ed apre ad una logica gruppale. Non è un campo che semplicemente emerge dalla relazione fra paziente e terapeuta, ma è uno spazio che permette lo svolgersi della relazione transfert-controtransfert e, dove appariranno via via vari personaggi appartenenti al paziente e al terapeuta. Possiamo dire che c’è un gruppo che prende vita e dove non è facile distinguere il mio dal tuo; ma si parla piuttosto di “Nostro” e a lungo si dovrebbe lasciarlo così, in attesa che si definiscano meglio le appartenenze di ognuno, tenendo a mente che a volte questa operazione può essere che non serva nemmeno compierla. Questo non significa una relazione terapeutica totalmente simmetrica fra terapeuta e paziente. Essa lo è nel gioco che si inscena all’interno del campo, ma l’arbitro del processo deve sempre essere l’analista, che è sia dentro il campo come partecipante attivo e sia come osservatore e arbitro del gioco relazionale che si svolge nel campo analitico. Facciamo a questo punto brevemente un breve excursus, chiarificatore su alcuni concetti che possono essere facilmente sovrapposti e non compresi appieno. Empatia, Identificazione proiettiva, reverie.

L’esatto opposto dell’identificazione proiettiva è secondo Akhtar S. (2015) è l’empatia. La prima implica che il paziente ponga attivamente qualcosa nella mente del terapeuta. La seconda implica che il terapeuta cerchi attivamente di entrare in risonanza con l’esperienza del paziente. L’”identificazione di prova” di cui parla Grotstein riprendendo un concetto del 1942 di Fliess. sull'empatia: “si introietta questo oggetto transitoriamente, e si proietta di nuovo l'introietto nell'oggetto. Questo gli permette soltanto alla fine di far coincidere una percezione dall'esterno ed una all'interno”. La differenza definita come contrari tra l'empatia e l'identificazione proiettiva vale se quest'ultima è la versione patologica della Klein dove c'è un uso massiccio di questo processo ai fini difensivi. Ma nell'identificazione proiettiva come l’ha intesa Bion l'identificazione proiettiva acquisisce una valenza non più di meccanismo difensivo ma un processo di comunicazione che sviluppa la crescita del bambino. Il ricevente della proiezione la madre e l'analista dovranno svolgere un lavoro, non passivo come accade nel meccanismo difensivo, ma molto attivo di elaborazione dei contenuti emozionali impensabili proiettati dal bambino, e digerirli per poi rimandarli bonificati al mittente. In questo sono due processi attivi dell'analista e l'empatia kohutiana e la reverie bioniana. In questa ottica l’empatia può essere la risposta all’identificazione proiettiva intesa come l’ha concepita Bion. Inoltre si può anche dire che la Reverie si differenzia dall’empatia, nel senso che essa non solo raggiunge il paziente dove egli è in quel momento, ma lo espone a prendere contatto con delle cose a lui ignote e sentite come profondamente distruttive. Quindi Empatia e Reverie sono due modalità di essere e fare da “contenitore” alle proiezioni dell’identificazione proiettiva attiva di Bion. Quando il terapeuta sembra identificarsi con l’immagine creata dal paziente (Grotstein 2007), quella identificazione può essere dice Grotstein una identificazione parziale, che lui paragone all’empatia kohutiana, che funge da strumento analitico intuitivo. Mentre l’identificazione totale corrisponde al controtransfert e quella parziale alla reverie o empatia. Partendo da un presupposto che oggi non si riesce più a pensare ad un transfert come sganciato dal controtransfert, e ad un controtransfert, che essendo per sua natura è inconscio, come un qualcosa che si può utilizzare solo a partire dai suoi derivati (dalle nostre Reverie, dall’empatia, dai nostri stati somatici o reverie corporee in seduta, dai sogni, da ciò che riusciamo a far emergere dal lavoro riflessivo autoanalitico, dalle supervisioni, dagli scambi con i colleghi. Importante in questo contesto l’osservazione di Bolognini (2002) che afferma “ Credo che l’esperienza controtransferale sia necessaria per entrare davvero nel mondo interno di un paziente; credo che non garantisca affatto il raggiungimento di un buon grado di empatia (se si rimane identificati controtransferalmente ci si limita a ripetere una scena interna, senza poterla comprendere e interpretare); credo però che l’essere passati attraverso l’esperienza controtransferale elaborandola permetta lo sviluppo di un’empatia ampia e profonda, non limitata alla concordanza egosintonica, e che tale considerazione costituisca il campo-base naturale per l’impostazione e lo sviluppo di cambiamenti profondi nel paziente”.

Antonino Ferro

Il modello dell’apparato psichico al quale Antonino Ferro fa riferimento è il modello dell’apparato psichico postulato da Bion (1962, 1963, 1965), con gli sviluppi di alcuni punti (Ferro, 2001, 2002). A-Stimolazione estero-propriocettiva ---------------- Sensorialità B-Funzione digestivo- immaginativa-poietica-------------------- Pittogramma C-Capacità di tessitura narrativa dell’apparato psichico Fig. 1 Nella parte A dello schema dice Ferro (“2011) si metto la sensorialità, cioè tutto ciò che è arrivato fino al nostro apparato psichico e che non è stato o non è ancora stato “digerito”. Ciò che Bion chiama “fatti non digeriti” (Bion, 1962), e che comprende anche gli stati protoemotivi e le stimolazioni di ogni tipo. Nella parte b dello schema, c’è la funzione metabolica dell’apparato psichico, capace di concentrare in un’immagine ciò che faceva ancora pressione perché non figurabile; il risultato di questa operazione di alfabetizzazione sono i pittogrammi: il succo visivo di ciò che faceva pressione in quanto stimolazione, qualche cosa di facilmente utilizzabile come mattone elementare del pensiero. Nella sezione c dello schema, Ferro (2011) inserisce la capacità dell’apparato psichico di tessere delle trame narrative coerenti – in una certa misura – con i pittogrammi. Tutto questo con il lessico di Bion, otterremo lo schema seguente:

A- Elementi Beta B- Elementi Alfa- C- Contenitore-Contenuto ( PS<>D CN<>FS)

Nella parte a mettiamo ora gli elementi b (il che vuole dire che, in sé, gli elementi b non sono “cose cattive”, ma sono al contrario la fonte di ogni trasformazione possibile). Nella parte b mettiamo la “funzione alfa”, il cui ruolo è di trasformare gli elementi b non rappresentabili e non raffigurabili in “immagini visive”, o meglio in “pittogrammi emotivi”, nei quali ciò che faceva pressione come sensorialità, stimolazione, può trovare una “raffigurabilità” elementare: gli elementi a. Bion dice (1992) che un dolore intenso potrà essere pittografato in un viso bagnato di lacrime o come qualcuno che si massaggia il gomito. Si tratta in b di insiemi di elementi che il nostro apparato non smette di produrre. Per essere elaborato a un livello superiore la sequenza degli elementi ha dovuto trovare degli strumenti descritti in c, cioè: l’oscillazione tra a e b, tra PS (Posizione schizoparanoide) e D (Posizione depressiva), tra CN (capacità negativa) e FS (fatto prescelto). Intendiamo con “contenitore” il luogo, il funzionamento capace di “contenere” le emozioni, i pensieri e di permettere lo sviluppo di a. Con PS >< D, intendiamo l’oscillazione tra livelli più frammentati e livelli più compatti di emozioni e di pensieri. Con CN e FS, intendiamo la non-saturazione, o la definizione esaustiva, di pensieri e di emozioni. In c noi siamo alla presenza di tutti gli “strumenti per pensare”, una volta che la matrice visiva del pensiero è stata formata nelle sue sotto unità elementari (cosa che ha luogo in b grazie alla funzione alfa)1. Se proseguiamo l’analisi dello schema, si può aggiungere ancora una cosa importante: i fattori di “guarigione” in rapporto a ogni sezione. Se la patologia concerne solo un’accumulazione di fatti non digeriti (di fatti micro o macro traumatici, che hanno dato luogo a più stimolazioni di quante non fosse possibile trasformare in emozioni o pensieri), lo strumento principale della terapia è l’interpretazione. Se, al contrario, il luogo della patologia concerne una carenza della funzione alfa (e si tratta qui delle situazioni più gravi), il fattore terapeutico principale è la “capacità di reverie” dell’analista, che consiste in operazioni (mentali) che l’analista deve fare e non dire: cioè l’analista deve attivare la sua funzione alfa, deve trasformare degli elementi b in a e deve soprattutto “passare al paziente”, giorno dopo giorno, il metodo che permette questa trasformazione. Se la patologia concerne la zona c, il fattore terapeutico per eccellenza è la capacità, da parte dell’analista di essere all’unisono con il paziente (cosa che permette lo sviluppo del contenitore), e la capacità di lutto e di creatività dell’apparato psichico dell’analista, che devono permettergli delle ampie oscillazioni tra PS ´ D e CN ´ FS. Ne deriva uno stravolgimento della tecnica classica: sono la ricettività dell’analista, le trasformazioni che fa, la sua tolleranza nei confronti del dubbio (le interpretazioni non sature e le interpretazioni narrative), che diventano la chiave terapeutica, con la capacità di modulazione interpretativa. È dunque importante, come dicevo, che l’ascolto dell’analista passi da: a) un “prisma di convergenza” delle comunicazioni del paziente, in rapporto alla relazione attuale nel campo tra i modi del paziente e i modi dell’analista, 1 PS posizione schizoparanoide; D posizione depressiva; CN capacità negative; FS fatto scelto. Fig. 3 A-Interpretazione B-Operazioni di “reverie” C-Unisono Sviluppo del contenitore Se riprendiamo il discorso iniziale, avremo sempre la seguente sequenza: - formazione di un pittogramma visivo (elemento a); - concatenamento dei pittogrammi visivi (sequenza di elementi a) = pensiero onirico della veglia – derivato(i) narrativo(i). Se si è creata, nel campo analitico, una situazione di persecuzione e poi di sollievo, gli elementi che si formano potranno essere i seguenti: Questa sequenza potrebbe generare i “derivati narrativi” più diversi: “Ero terrorizzato per l’esame di questa mattina, ma, dopo il primo approccio con il professore, ho ritrovato la fiducia in me”. Oppure: “mi ricordo che ho avuto paura quando la polizia mi ha fermato, ma ho ritrovato la calma quando ho capito che era solo un controllo di routine”. Oppure: “quando ero piccolo, avevo una paura terribile del dottore, ma quando la visita cominciava ero molto più tranquillo”. O ancora: “ho sognato che ero il bersaglio delle questioni di mio suocero, ma poi, ho capito che era preoccupato per me”. Le due grandi innovazioni di Ferro nel campo delle “trasformazioni” fatte da Bion sono la “Trasformazione in gioco” e la “trasformazione in sogno”. Vediamo subito la trasformazione in gioco: per Ferro in essa vi è una specie di “gioco con i personaggi”, scortati verso un nuovo tratto di sentiero integrativo: parti scisse, si presentano sulla ribalta della seduta attraverso la comparsa di nuovi personaggi di scena nella quotidianità. L’espansione narratologica di questi personaggi e del loro intreccio, sollecitata dalla curiosità dell’analista, consente un arborizzazione del mondo intrapsichico e l’avvicinarsi di valenza scisse e lontane del paziente. Questo si unisce alla lettura della cronaca del mondo” come se fosse un sogno” dove mentre il contesto condiviso è quello della narrazione esterna del paziente, la mente dell’analista lavora anche in un altro ambito metaforico, intrapsichico e/o relazionale, e fa passare, nei toni, nuovi orientamenti, cioè invia segnali nelle trame inconsce del paziente. Anche l’analista cha lavora con pazienti adulti può usare nei suoi interventi il linguaggio che l’analizzando sta adoperando in seduta. Può cioè proporre le sue osservazioni ed interpretazioni, non sotto forma di un meta-discorso che commenta ciò che il paziente sta dicendo, ma inserendosi direttamente nel filo del suo discorso. La prima condizione necessaria perché questo tipo di interventi abbia successo è che lo psicoterapista abbia investito di interesse e partecipazione il linguaggio del paziente ed il mondo di persone, cose, fatti, idee, sentimenti che ne è oggetto. L’analista, in secondo luogo, non deve tradurre il discorso dell’analizzando nella lingua della psicoanalisi e poi ri-tradurre da questa nella lingua dell’analizzando; deve semplicemente parlare con lui. Il linguaggio della psicoanalisi rimane momentaneamente nella penombra della mente del terapista, anche se in qualche modo è presente nelle sue parole. Questa trasformazione ci introduce nella visione di Ferro del campo analitico. Il campo analitico è il luogo (Ferro, 2000) dove si raccolgono le identificazioni proiettive e le Storie di paziente e analista che si trovano ad esser coprotagonisti. In altri termini, in un’ottica di campo, esso è codeterminato dal funzionamento mentale sia del paziente sia dell’analista. Il discorso sul campo si differenzia da quello di intersoggettività dipende da dove poniamo nella parola “intersoggettività” la nostra attenzione. Se la si pone sulla seconda parte del termine, si sottolinea esclusivamente che ci sono due soggetti in interazione, mentre per la teoria del campo è importante più prestare maggior attenzione sull’ inter cioè sul tra come il luogo dove avviene l’analisi e l’incontro fra le soggettività. Nel campo avviene l’intersoggettività, come due tennisti che giocano e si affrontano si scontrano o si accordano. Ma a dispetto di una pretesa ed eccessiva mutualità, però uno dei due (il terapeuta) è anche l’arbitro, anche quando riconosce che l’altro ha ragione. Infatti per gli psicoanalisti intersoggettivisti americani come Stolorow ( 1997) il campo relazionale viene così inteso :”Nella sua forma più generale, la nostra tesi…è che la psicoanalisi cerca di chiarire i fenomeni che emergono all’interno di un campo psicologico specifico costituito dall’intersezione di due soggettività (quella del paziente e quella dell’analista)….La posizione di osservazione è sempre all’interno, piuttosto che all’esterno, del campo intersoggettivo….un fatto che garantisce la centralità di introspezione ed empatia come metodo di osservazione”. Facendo eco come abbiamo già incontrato, con l’affermazione di Winnicott secondo la quale non esiste il bambino, ma soltanto il bambino in relazione con chi si prende cura di lui, continuano dicendo :” I fenomeni clinici…non possono essere compresi fuori dei contesti intersoggettivi nei quali prendono forma. Il paziente e l’analista insieme formano un sistema psicologico indissolubile, e questo sistema costituisce il campo empirico dell’indagine psicoanalitica.”. Tutto può avvenire seguendo questo pensiero solo all’interno della relazione, ma se così fosse non ci sarebbe mai uno spazio elaborativo. Saremmo sempre costretti a fare ad essere in relazione, ma è necessario poterne uscire per vederci ad un altro livello in quella relazione esperita. Se così non fosse non potremmo mai capire cosa succede fra noi e il paziente ma saremmo imprigionati nella relazione con il paziente, dovendola solo viverla farne continuamente esperienza, ma senza mai poterla portare a nessuna qualsivoglia “espressione”. Il campo non si espande, non si sviluppa positivamente e in maniera sana solo perché avviene una interazione tra terapeuta e paziente. Si può benissimo delirare in due ed anche in piccoli e grandi gruppi. Ma il campo cresce se l’analista riesce a farlo crescere, anche con il concorso dell’aiuto del paziente come “miglior collega”(Bion, 1984). Se dopo un’interpretazione un paziente rispondesse: «Oggi sono dovuto sfuggire a un cane che mi voleva mordere», sarebbe molto diverso da un paziente che dicesse: «Oggi mio cugino ci ha proprio azzeccato con la medicina che mi ha dato», e ancora diverso da: «Sono andato a cena da mia nonna che mi ha dato soltanto un brodino e sono rimasto affamato e arrabbiato». Cioè il paziente (o un qualsiasi punto del campo ) segnala di continuo come è stato percepito l’intervento (o il silenzio) dell’analista, e ciò diviene il punto di partenza per aggiustamenti successivi tali da mantenere attivo un processo trasformativo, senza che sia bloccato da un eccesso di persecuzione o da un’insufficiente attività interpretativa. il concetto di «trasformazioni in sogno» in cui l’analista premette ad ogni comunicazione del paziente una sorta di «filtro magico» costituito dalle parole «ho fatto un sogno in cui», che rappresenta il punto massimo di buon funzionamento del campo: il campo sogna. Le funzioni ? trasformano sensorialità in pensiero. Una paziente dice: «Ho deciso di fare un’operazione perché sono insoddisfatta del mio seno». Naturalmente infiniti sono gli interventi possibili o i pensieri possibili di analisti diversi a seconda della contestualizzazione di tale comunicazione, a seconda delle associazioni della paziente e a seconda dei modelli espliciti o impliciti dell’analista (e aggiungerei a seconda del suo stato mentale di quel giorno). La gamma va dal considerare la comunicazione della paziente un preludio rispetto ad un agito, al poter considerare qualcosa di sé stessa che non piace alla paziente, al bisogno di valorizzarsi esteticamente, ad un rimprovero all’analista e via di seguito. Molto diverso sarà l’ascolto dell’analista se lui premetterà alle parole della paziente, come dicevo, in automatico il prefisso: «Ho fatto un sogno», per cui la comunicazione diventa: «Ho fatto un sogno in cui decidevo di fare una operazione perché ero insoddisfatta del mio seno». L’ascolto a questo punto si amplia e si decostruisce: cosa è l’operazione? cosa è il seno? di cosa la paziente è insoddisfatta? La gamma di significati si amplia e potrebbe ad esempio essere presa come una segnalazione della insoddisfazione della paziente riguardo al proprio analista (il seno?) e di voler compiere delle «operazioni in seduta» che ne modifichino l’assetto mentale. Ciò potrebbe avere infinite variabili. A questo punto, anche delle domande tangenziali tipo: di cosa è insoddisfatta riguardo al suo seno? oppure: cosa vorrebbe cambiare del suo seno? potrebbero portare ad acquisire elementi di sceneggiature/scenografie prima impensabili. De-costruire significa pertanto anche de-concretizzare la comunicazione, così una miriade di altri vertici di lettura sarebbero possibili. Se il paziente porta un sintomo somatico, possiamo prendere due strade stare sul piano concreto della narrazione del paziente e quindi rimanere sul sintomo e le sue varie sfaccettature o immaginare psichicamente il sintomo. L’operazione risulta più semplice se prima del sintomo si possa mettere ho fatto un sogno dove c’era il sintomo. Il sintomo così potrà aprirsi a molte altre sfaccettature più psichiche e meno somatiche. Con questo si aiuta la psiche, come direbbe Winnicott, ad immaginare gli accadimenti del corpo. In qualche modo il paziente diventa quel luogo del campo che continuamente racconta le evoluzioni e le trasformazioni del campo stesso. Queste emozioni possono essere «cucinate» attraverso la trasformazione narrativa delle stesse, con interventi insaturi e sempre «assaggiando» la risposta del paziente per sapere di quale ingredienti dobbiamo arricchire o alleggerire il piatto. La pittografatura degli stati protoemotivi implica un dare nome a qualcosa che nome non aveva. Coniugando il concetto di Bion di «pensiero onirico dello stato di veglia» con il concetto di campo e di personaggi della seduta, abbiamo uno spazio-tempo in cui turbini di elementi ß vengono trasformati dalla funzione ? del campo in pensieri onirici del campo. Su questi si opera con le trasformazioni narrative (in cui non vi è decodificazione, ma la trasformazione avviene favorendo la narrazione) che si aggiungono a quelle classiche descritte da Bion (1965) – trasformazioni a moto rigido, trasformazioni proiettive, trasformazioni in allucinosi – ed alla trasformazione in sogno da me postulata. È chiaro che una teoria del campo richiede all’analista una continua vigilanza e manutenzione del suo principale strumento di lavoro: la sua vita mentale. Quella che era l’attenzione per l’osservazione della comunicazione del paziente, e l’attenzione al controtransfert, viene spostata come attenzione alle figure, ai personaggi che nel campo prendono vita, che costituiscono un segnalatore continuo della vita del campo. Ciò consente di continuamente decostruire in maniera sub-liminale il «gomitolo» ingarbugliato dei transfert in sotto unità narrative che possono essere singolarmente trasformate e continuamente ri-assemblate. È un campo in perenne trasformazione che implica un’impossibilità che qualcosa rimanga al di fuori di esso, una volta che ci sia quel big-bang che prende vita dai mondi possibili generati dall’incontro di paziente e analista all’interno del setting. Luoghi del campo sono la relazione attuale tra analista e paziente, luoghi del campo sono ugualmente le loro storie, i transfert, le difese, le turbolenze emotive, le loro alfabetizzazioni etc. Il campo ha un suo respiro, l’inspirazione segnala l’arrivo in esso (o lo scongelarsi in esso) di grumi di impensabilità, l’espirazione il collasso che segue a ogni interpretazione satura, che lo puntiformizza per prepararlo ad una futura espansione. Naturalmente questo è un movimento incessante. Altra caratteristica del campo è che prima o poi deve quanto meno contagiarsi, addirittura ammalarsi della malattia del paziente per divenire il luogo della cura e quindi delle trasformazioni. Alla complessità del campo attuale, orizzontale, che vive nell’hic et nunc, è fondamentale aggiungere una pari complessità di un campo verticale, che comprende anche il multigenerazionale: il tempo entra nella stanza di analisi. le emozioni nel campo possono essere «cucinate» attraverso la trasformazione narrativa delle stesse, con interventi insaturi e sempre «assaggiando» la risposta del paziente per sapere di quale ingredienti dobbiamo arricchire o alleggerire il piatto. La patologia può riguardare una carenza della funzione alfa, il fattore terapeutico diventa principalmente la capacità di “reverie” deve fare non dire, Ovvero egli deve attivare la propria funzione alfa, e trasformare elementi beta in alfa, e soprattutto “passare al paziente” seduta dopo seduta il metodo per far ciò. Nel caso primo è una patologia della funzione alfa, molto in linea con il funzionamento somatospichico, mentre la seconda modalità di patologia investe il luogo, dove può funzionare la funzione alfa ovvero il “contenitore”. Ci sono contenuti beta che nonostante ci sia una funzione alfa integra non hanno un contenitore dove far funzionare la funzione alfa e trasformarli in elementi alfa narrabili psichicamente. In questa seconda modalità, possiamo definirla nei nostri termini psicosomatica, il fattore terapeutico fondamentale sarà per Ferro (2000) la capacità dell’analista di essere all’unisono con il paziente, il che consente lo sviluppo del contenitore, essere ricettivo, operare trasformazioni beta/alfa, tollerare il dubbio, fare interpretazioni insature e narrative e saper modulare nel campo l’attività interpretativa.

Riflessioni ulteriori sulla nozione di “Campo analitico”

Nel modello di campo analitico di Ferro, invece, come vedremo,” l’asse orizzontale dell’analisi ( propria del campo l’interazione in/conscia), non azzera una visione del paziente ( e dell’analista) come soggetti separati- l’asse verticale (la storia personale)- ma la tiene sullo sfondo. Difatti ritiene che il fattore terapeutico non sia tanto la verità dell’analista sul paziente, ma quella che riesce a raggiungere con il paziente. In definitiva il fattore terapeutico chiave diventa la ricerca stessa di sintonia emotiva: tessere fili (ideo-emotivi) di significato per accrescere la capacità della mente- come contenitore- di ospitare, senza frammentarsi. Proto-contenuti non ancora trasformati” (Civitarese “Spettri del transfert”(2013), in Ferro et al. 2013).

Un campo è descrivibile, quindi, seguendo sinteticamente la teoresi dei postbioniani, in particolare, come abbiamo già visto, il pensiero di Antonino Ferro e Giuseppe Civitarese (2016)- in base alle sue trasformazioni, fluttuazioni, perturbazioni Considerare una situazione di incontro attraverso la lente del campo significa quindi concentrare l’attenzione più sui flussi che sui soggetti/oggetti che lo compongono. Ma che trasformazioni avvengono nel campo? In prima battuta potremmo dire che le trasformazioni vanno pensate come delle traduzioni continue della realtà ordinaria, fattuale, ad opera della realtà emozionale, nella direzione di una più ricca simbolizzazione. Il campo è un modo per dare un nome a quell’intreccio pre-comunicativo che rende possibile lo svolgersi dei processi di trasformazione degli elementi protomentali e preverbali in pittogrammi emotivi, ossia in immagini. Per comprendere meglio questo passaggio è necessario fare riferimento al modello della mente elaborato da Ferro e dai suoi allievi, a partire da Bion.

Il modello schematizzato nella figura sopra, mette in evidenza come le trasformazioni si collochino su piani diversi. In primo luogo, grazie alla trasformazione operata dalla funzione alfa, le protoemozioni (elementi Beta), si trasformano in elementi alfa, ossia assumono la forma elementare di pittogrammi emotivi. Gli elementi alfa, a loro volta, per opera del pensiero onirico della veglia che svolge una sorta di operazione di “montaggio”, si strutturano in concatenazioni. Nel campo si manifestano dei “derivati” di tali concatenazioni, in una gamma articolata che va da forme più semplici e con un tempo di decadimento brevissimo (per esempio i flash onirici, ossia quelle immagini fuggevoli che appaiono o scompaiono nell’arco di frazioni di secondo) fino a forme più complesse, associabili a “personaggi”, dotati di consistenza e persistenza che, a prescindere dal fatto di avere una referenza esterna (cioè di indicare una figura effettivamente esistente sul piano di realtà fattuale, il padre reale, il capo. ecc.) segnalano lo “stato” in cui il campo si trova nel qui ed ora. Il campo, in questa prospettiva, si arricchisce progressivamente di un “cast” di personaggi, che nel loro entrare e uscire dalla scena, tracciano delle trame narrative che raccontano l’evoluzione, la regressione o la stasi nel processo di espansione della pensabilità. In secondo luogo, i “derivati narrativi” che emergono di volta in volta nel campo, sono suscettibili di un ulteriore livello di elaborazione, descrivibile, attingendo nuovamente al pensiero di Bion, attraverso il movimento oscillatorio21 di tre parametri fondamentali: contenitore-contenuto, PS-D (posizione schizoparanoide, posizione depressiva), CN-FP (capacità negativa e fatto scelto) (Ferro, 2013, p. 345). Accenniamo brevemente a questi tre aspetti: - contenitore-contenuto: un pensiero si forma se le protoemozioni vengono contenute e raccolte; se, grazie alla relazione che si costituisce, elementi dispersi e frammentari acquistano un senso e una forma, seppur parziale e temporanea; - PS-D: il movimento oscillatorio tra la posizione schizoparanoide e depressiva segnala quanto nel campo prevalga la scissione, la relazione con oggetti parziali, connessi a vissuti di tipo persecutorio, oppure quanto prevalga l’integrazione, la sintesi, l’emergere di punti di condensazione, collegati alla capacità di tollerare la mancanza (l’unità raggiunta è sempre strutturalmente mancante); - CN-FP: il movimento tra capacità negativa e fatto scelto, si configura come un’oscillazione tra la permanenza in uno stato di attesa vigile, aperta al possibile, e il momento della decisione e della scelta, nel quale un elemento presente nel campo si stacca dal flusso e assume il ruolo di attrattore delle forze in gioco. Il fallimento delle operazioni di “alfabetizzazione” sopra descritte, può portare alla configurazione di un campo “iperbeta”, cioè di una situazione chiusa, bloccata, stereotipata, affettivamente e cognitivamente povera, nella quale il vettore del cambiamento non incontra quello dell’apprendimento.

Carattere narrativo e insaturo del campo

L’intervento dell’analista si pone come un contributo insaturo, di co-costruzione di una “verità” non data ma generata nel campo analitico. Ogni “personaggio” che emerge nel campo svolge una specifica funzione. Particolarmente significativi sono i “personaggi boa”, ossia quei personaggi che segnalano passaggi evolutivi riusciti e ai quali si può fare riferimento nei momenti di crisi e di regressione. Sulla dimensione narrativa del campo riportiamo queste parole di Corrao, il quale centra l’attenzione sulla relazione biunivoca tra emozioni e narrazioni: «“Sciogliere le emozioni in narrazioni” significa operare una trasformazione attraverso cui emozioni e vissuti troppo addensati vengono espressi in parole, scene e narrazioni. La messa in parole cui mi riferisco non coincide con l’interpretazione classica, ma piuttosto ne rappresenta un precursore o un sostituto. Essa è caratterizzata dal fatto di essere, per alcuni aspetti (spontaneità, immediatezza, vicinanza con la dimensione pre-conscia), simile ad una libera associazione ed è caratterizzata, inoltre, dalla forma narrativa e per immagini. La nozione di “sciogliere le emozioni in narrazioni” può essere indicata anche con “emozione-narrazione”. Questa notazione (emozione-narrazione) mette in luce non soltanto la trasformazione che ha come risultato l’espressione delle emozioni, ma anche l’operazione reciproca. Evidenzia, dunque, che la narrazione ha la capacità di fare emergere emozioni sino a quel momento disperse o avvertite soltanto come tensioni». Va comunque sottolineato che l’interpretazione in senso classico (in particolare l’interpretazione del transfert), secondo alcuni analisti che si rifanno al modello di campo, se ben bilanciata, mantiene una funzione essenziale. In altri termini, le dinamiche transferali e controtransferali costituiscono delle coordinate possibili, ma non esclusive, per leggere la situazione analitica.

Lo spettro dell’onirico nella situazione emergente nel campo analitico.

La seduta terapeutica, nell’attivazione del campo analitico dinamico, è quindi, “la co-costruzione di un sogno”, un sognare insieme al paziente fatto dallo scambio continuo di identificazioni proiettive che, accolte dalla reciproca capacità di rêverie, permettono la nascita e la co-costruzione del contenitore e del contenuto dentro il loro rapporto dinamico che li lega indissolubilmente. “L’analista sogna la seduta (…) e questo avviene in una variegata molteplicità di aspetti: decostruisce la comunicazione del paziente, trasforma gli elementi beta in alfa, usa questi ultimi per rinforzare la barriera di contatto, per creare ricordi, e soprattutto sviluppa gli strumenti per pensare e sognare nel paziente)”. (Ferro, Civitarese 2016). Possiamo dire che la psicoanalisi post-bioniana contemporanea può dare oggi una strumentazione tecnica più raffinata e precisa per lavorare su ciò che emerge: Lo spettro dell’onirico. In primo luogo, i post-bioniani articolano e differenziano diverse formazioni emergenti, a seconda del grado più o meno sviluppato di simbolizzazione e di trasformazione. Prendendo spunto dall’immagine dello spettro elettromagnetico, che in fisica colloca le possibili frequenze delle radiazioni elettromagnetiche su un continuum che va dall’ultravioletto all’infrarosso, essi introducono il concetto spettro dell’onirico per indicare la gamma dei fenomeni “emergenti” nel campo, dalle formazioni più vicine al sostrato corporeo (protomentale, precategoriale, sincretico) a quelle più simbolicamente elaborate e trasformate dalla cultura e dal processo di astrazione. Analogamente allo spettro elettromagnetico, dove la banda del visibile che è percepibile all’occhio umano rappresenta solo una parte dell’intero spettro, così anche nello spettro dell’onirico, la parte che può essere pensata dalla mente individuale e gruppale è solo una frazione del tutto. Rimangono ai suoi estremi delle aree potenziali, di espansione possibile, in funzione del livello di evoluzione che ha raggiunto l’apparato per pensare. Possiamo immaginare che la situazione nel campo analitico, sia immersa in una “nuvola” di possibilità inesplorate, di pensieri senza pensatore, il che rimanda ad un’area ignota, disorientante, ambigua ma carica di potenzialità. In altre parole, vi sono sempre nel qui ed ora della situazione nel campo analitico delle riserve di possibilità non pensate che se intercettate, “agganciate”, possono contribuire a rompere il cerchio delle coazioni a ripetere e delle stereotipie. Ovviamente non tutte le trasformazioni si realizzano. Rimangono trasformazioni non realizzate, pensieri non pensati. Lavorare ispirandosi ad un modello di campo vuol dire, per il terapeuta, accettare di muoversi in un’area potenzialmente aperta, multidimensionale, che dischiude infiniti mondi possibili; un’area che impone alla sua mente un’oscillazione continua tra Capacità Negativa e Fatto Scelto. Il riferimento allo “spettro dell’onirico” consente inoltre di raffinare la capacità di cogliere in maniera puntuale le micro-trasformazioni che attraversano il campo. È pertanto possibile distinguere diversi fenomeni emergenti, sulla base della loro vicinanza distanza dalla dimensione protomentale-sensoriale: - Le rêverie corporee ossia azioni, prive di un’immediata qualità rappresentazionale o percettiva, che si esprimono come un movimento involontario del corpo, che giungono senza preavviso, «come un ospite inatteso la cui visita non manca mai di sorprenderci» (Civitarese, 2014). Riguarda il livello corporeo, le tensioni, le impazienze, le effrazioni del setting interno ed esterno , i movimenti, gli spostamenti, i rumori del corpo, i cambi di luce o di temperatura. - Le trasformazioni in allucinosi (Ibidem, p. 66), sono situazioni nelle quali “si è imprigionati in un effetto di realtà”, di eccessiva concretezza, di appiattimento su un piano bidimensionale, in cui si dà per scontato ciò che accade e le parole sono usate come cose e non più come simboli. Una quota di allucinosi (ossia di proiezione sul reale di ciò che già sappiamo) è inevitabile per riconoscere e dare continuità all’esperienza. All’interno del campo, si può cogliere – seguendo Civitarese – una trasformazione in allucinosi nelle situazioni in cui si verifica un fraintendimento frutto di una percezione o una credenza poi smentita dai fatti; per esempio, l’essere convinti – erroneamente – che in un’aula sono presenti due partecipanti in relazione gerarchica di capo-collaboratore può essere letta come un semplice errore, oppure come una trasformazione in allucinosi, ossia come una “percezione” esatta che ci dice qualche cosa riguardo allo stato del campo e alle sue dinamiche inconsce. - Il flash onirico, come immagine-lampo, singolo fotogramma, che affiora nella mente al di fuori di un atto intenzionale. - La rêverie, come sogno ad occhi aperti, che, a differenza del flash onirico che si manifesta in modo puntuale e contratto, si articola in una sceneggiatura, prevede un’ambientazione e dei personaggi. Anche la rêverie visita la mente del formatore, che si predispone ad accoglierla ponendosi in una postura ricettiva e vigile (capacità negativa). Per esempio, può essere il ricordo che sorge spontaneamente nella mente di un episodio vissuto con un altro gruppo, magari associato alla scena di un film visto di recente. - La trasformazione in sogno, introdotta da Ferro, presuppone di considerare quello che un partecipante sta raccontando “filtrandolo” (Ferro, 2014, pp. 21-25) come se si trattasse del racconto di un sogno. Tale indicazione tecnica ha la funzione di facilitare una lettura di quello che il partecipante sta raccontando non sul piano di realtà, ma in quanto riferito a ciò che sta succedendo nel qui ed ora del campo analitico. Per esempio, il racconto di un capo poco propenso ad ascoltare potrebbe segnalare uno stato del campo caratterizzato dal non ascolto; il che dovrebbe interrogare il formatore, che, stante l’asimmetria delle responsabilità nei confronti del gruppo, può ripensare a come modulare i suoi interventi, tenendo conto di questo elemento emergente. - Sogno. Il narratore svolge il ruolo di porta-sogno che intercetta un aspetto della configurazione che il campo ha assunto rispetto al compito. - Metafora. Nella retorica classica, la metafora è classificata come un tropo, ossia una “figura di sostituzione” fondata su una relazione di somiglianza (“mi sento su una zattera” dice un partecipante ad un gruppo operativo il cui compito è riflettere sulle competenze necessarie per affrontare il cambiamento imprevedibile). È frequente che emergano spontaneamente delle immagini che assumono progressivamente la funzione di condensare una molteplicità di significati riferibili allo stato in cui si trova il campo, che si stratificano col progredire del processo del gruppo. L’uso della metafora per espandere e arricchire di nuovi nessi associativi il tema che si sta affrontando, è una tecnica consolidata in ambito terapeutico. Bisogna tuttavia distinguere tra il caso in cui la metafora è per così dire “indotta” dal terapeuta, dal caso in cui essa sorge in maniera spontanea e tangenziale, come vero e proprio “personaggio” o “aggregato funzionale” del campo.

Alcune riflessioni per quanto riguarda il “Corpo” nel pensiero di Antonino Ferro

Pavia (2011) sostiene che la questione del corpo, in senso olistico, venga trattata troppo poco ed ancora in un’ottica prevalentemente monopersonale e tradizionale. Sembra infatti che l’identificazione proiettiva rimanga l’unico costrutto chiaro attraverso il quale, avendosi un passaggio tra sé e l’altro di qualcosa che non appartiene immediatamente al mondo della parola o delle immagini, ma che le promuove, ci si avvicina al mondo palpabile del sensoriale-emotivo e dunque al corporeo. Ora, una delle teorizzazioni più interessanti dell’Intersoggettivismo contemporaneo (soprattutto quello legato agli studi dell’Infant research, come vedremo più avanti), sostenuta tra l’altro dalla ricerca empirica, è quella che ha messo a fuoco l’intensa e fondamentale comunicazione diadica tra gli esseri umani attraverso il sistema di comunicazioni implicito mediato dal corporeo. Prendiamo come punto di riferimento gli studi della Lyons-Ruth, nota ricercatrice del Boston Group, e vediamo alcune caratteristiche psicologiche di questa interazione precisa, studiata come l’effetto di ciò che ha chiamato Enactive Representations (ER). Si tratta di quelle rappresentazioni non simboliche (né immagini né parole), di un vero saper di sé e dell’altro in relazione, situate nella mente-corpo e messe in atto in continuazione (Mosse Relazionali). Sono prototipi di specie e della relazione madre-bambino, per cui diventiamo (siamo) capaci di una conoscenza e di una esperienza implicita dello stare con l’altro. A mio parere, in questa concettualizzazione siamo in una sorta di “something more than rêverie”, ovvero in uno spazio che non contrasta, ma sostanzia, amplia e completa il tradizionale concetto di identificazione proiettiva, poiché introduce il corpo in una prospettiva non solo simbolica e ne incornicia la funzione relazionale. Infatti, il luogo della scrittura delle ER non sarà il simbolico, il puro mentale, ma bensì il rappresentato in azione, l’agire psicologico, quello nel quale tanta parte hanno non le parole, ma piuttosto le posture, la mimica, la prosodia e via dicendo; ed ovvero ciò che rende tangibile e palpabile la comunicazione e la relazione. Ora, come detto sopra, a me sembra che nel pensiero di Ferro la realtà del corpo, delle sue comunicazioni ed interazioni, dunque la sensorialità così come si esprime nelle azioni della relazione analitica, non vengano pregiudizialmente escluse, ma rimangano insoddisfatte, perché incluse e circoscritte prevalentemente nel concetto di identificazione proiettiva e di Beta Elemento. A questo punto, soffermiamoci su uno dei punti più interessanti del pensiero di A. Ferro, la trasformazione in sogno, provando a coniugarlo con la questione del corpo. Il costrutto teorico-clinico di matrice bioniana implica che il processo di cambiamento terapeutico (e quello evolutivo) di ciò che residua come detrito nel nostro essere e che ci crea sofferenza avvenga attraverso la mediazione della cosiddetta “trasformazione in sogno”, inevitabile passaggio al fine del costituirsi del simbolo verbale. Ferro amplia e stressa tale concetto e lo applica alla seduta, suggerendo di immaginare che il paziente inizi il proprio discorso, dicendo: “Sa dottore, ho fatto un sogno in cui…”, una sorta di frase-enzima, utile al processo di digestione ed assimilazione del materiale clinico. Egli in questo modo invita l’analista a considerare che qualsiasi comunicazione, e non solo i sogni sensu stricto, può essere compresa ed analizzata come se fosse un sogno, e ciò al fine di liberare la narrativa clinica dalle costrizioni della reificazione. Questa “trasformazione in sogno”, è, a mio parere, un processo di trasformazioni intrapsichiche, non solo dal sensoriale al simbolico dentro una mente, ma anche del continuo flusso di enactment analista-paziente. Da questa prospettiva, lo stesso pensiero onirico della veglia e le libere associazioni avrebbero sempre una multipla e costante sorgente e, nella stanza d’analisi, sarebbero, oltreché il prodotto dell’inconscio individuale in relazione (simbolico), anche un prodotto dell’interazione a fondamento sensoriale-emotivo, corporeo, e un suo specifico dominio (implicito). Ciò che l’analista può cogliere e “sognare” in seduta potrebbe essere quella esperienza interattiva, relazionale, implicita, che deriva dall’incontro non solo delle menti e dei loro scambi attraverso i dialoghi e le identificazioni proiettive, ma anche dalle risultanti dell’ingaggio delle rispettive ER che sappiamo essere conosciute – non – pensate. Dal punto di vista teorico le stesse ER, non essendo propriamente elementi beta, potrebbero essere collocate topologicamente allo stesso livello primitivo, e cioè nel protomentale, e quindi, quando tossiche, non tanto soggette a processi evacuativi, ma prevalentemente dissociativi. In questo senso il sogno ed il derivato narrativo si formerebbero non solo nella trasformazione di beta in alfa dentro la mente del paziente o dell’analista, ma anche dalle trasformazioni delle ER congiunte che, attive nell’incontro analitico “corpo verso corpo”, darebbero luogo non solo ai singoli personaggi, ma soprattutto alle loro relazioni, che compongono le storie, in quanto prototipi di esse. Lo stesso sogno potrebbe così indicare e svelare il tipo di interazione corporea in atto e non solo la produzione dell’inconscio individuale, creando una spirale virtuosa tra corpi e sogni. Quando ascoltiamo un paziente dovremmo prendere in considerazione che il sogno (PODV) che sta raccontando riguarda in qualche modo già noi due non solo come transfert, ma anche come interazione. Perché non provare allora ad attrezzarsi tecnicamente per dedicarsi alle pur tenui e non facili da sentire variazioni di stato emotivo-corporeo, che possiamo percepire in noi stessi, in modo che alla fine il personaggio che l’analista sta incontrando, conoscendo e sognando, non rimanga solo qualcosa di impalpabile e astratto, ma viva attraverso noi? Compito dell’analista diventa, allora, anche quello di riportarsi intenzionalmente all’ascolto dell’emozione nel corpo, ogni qualvolta gli sia possibile. Quindi, parafrasando Antonino Ferro, si potrebbe accostare all’enzima della trasformazione in sogno: “ho fatto un sogno…” l’enzima dell’incorporazione: “cosa, dove, come sento e come sto mentre sto sognando con questo paziente? Il mio cuore, nuca, petto, spalle, ecc.?” Quando non è distratto (e lo è spesso) l’analista può cogliere quanto sia sottoposto, nel preconscio, ad un continuo “parlare corporeo e sensazionale” di bisbigli percettivi, sempre inascoltati di profili temporali attraverso cui avvengono le mosse relazionali e le interazioni, elementi che oso disporre accanto al mondo del beta elemento poiché radicati nel corpo e non simbolizzati. A questo punto, la trasformazione in sogno, evento mentale di prioritaria importanza, avviene essa stessa dentro questo sistema di funzionamento egoico e quindi, forse, potrebbe essere “aiutata” a realizzarsi se liberata dalle tendenze dell’Io e dal suo imporsi costantemente. Si dice che l’Io capisca un sacco di cose, ma spesso non capisce quando è il momento di farsi da parte al fine di non ostacolare quel fondamentale processo di contatto emotivo-sensoriale con il Sé, l’altro ed il “noi” (sé-altro), a cui per sua natura sovente si contrappone. Su questo punto, Bion ha proposto uno dei suggerimenti più alti ed importanti della sua lezione: essere meglio che si può senza memoria e senza desiderio. Essere in questa condizione significa disporsi in modo tale che l’Io retroceda significativamente; rendersi conto di avere la qualità e la competenza, oltre l’Io, per aprirsi alla complessità dell’esperienza (con il paziente), così spesso caotica, dove fondamentali verità o preziosissime potenzialità, non immediatamente comprensibili, sono nel preconscio o devono ancora formarsi. Il pensiero egoico, che non sempre è cosa da analista, funzionando per elisioni, impoverisce la naturale complessità mentale, obbligandoci a definizioni ed identificazioni che producono, invece, memoria e desiderio. Su questa questione del corpo, forse un po’ troppo assente nel pensiero di Ferro, ci possono venire incontro, oltre allo studio già affrontato sulle comunicazioni implicite fatte dalla Beebe nel secondo capitolo, anche altri due autori che trattano l’argomento dell’”Enacment” sotto il profilo teorico psicoanalitico e soprattutto uno di loro Cassorla sotto il punto di vista bioniano: Cassorla e Sapisochin. Successivamente affronteremo sempre la tematica dell’enacment non solo sotto il profilo psicoanalitico ma inserendo anche il contributo delle neuroscienza affettiva Allan Schore e David Hill.

Funzione alfa implicita, gesti psichici, ed enactment.

Nei funzionamenti mentali dove gli elementi patologici non hanno una rappresentatività psichica, incarnati in memorie implicite o meglio definite come inconscio non rimosso, dove non ci sono rappresentazioni oggettuali ma forme di memorie dissociate dal Sé, bisogna dare molta attenzione nella cura di queste ai cosiddetti enacment. Come vedremo spesso in queste forme patologiche sono l’unica prima espressione possibile in terapia, per portare alla luce questi aspetti dissociati. Affronteremo la questione affrontando soprattutto il pensiero di due autori psicoanalitici Sapisochin e Cassorla. Sapisochin (2006) ritiene che in psicoanalisi si possano utilizzare diverse e nuove modalità di ascolto di ciò che accade in seduta. Se costruire mentalmente una rappresentazione significa assegnare un significato all’incontro con il reale, ne dobbiamo dedurre che il lavoro della rappresentazione è molto più ampio di quanto sia stato postulato da Freud. Essendo la mente un’organizzazione funzionale in grado di elaborare i propri contenuti con modalità diverse, si può allora attribuire un significato all’incontro con il reale utilizzando allo stesso tempo diversi canali di comunicazione, verbale e non verbale e, l’azione intenderla come una forma di “rappresentazione immaginaria drammatizzata”. Sapisochin (2006) questi li descrive come “gesti psichici” che sono atti psichici, che il soggetto utilizza per legarsi affettivamente agli altri e che l’Io non riesce mai a pensare, perché si iscrivono all’inconscio non rimosso. Elementi dello psichismo che non essendo stati simbolizzati, sono diventati proto-pensieri che, vagando come anime in pena, si ripetono compulsivamente nello spazio intersoggettivo alla ricerca di un pensatore che dia loro le parole per poter essere pensati dall’Io. E’ una forma di legame primitivo per la mancanza di discriminazione tra le rappresentazioni del soggetto e quelle dell’oggetto; per la forma di iscrizione nello psichismo secondo una modalità corporea e ideo-pittografica; per la forma di espressione che passa attraverso la messa in atto. Questo nel transfert esige sempre l’altro che incarni il ruolo dell’oggetto enigmatico trasferito sullo scenario analitico. Qualcosa che annulla temporaneamente l’atteggiamento neutrale dell’analista, costringendolo a identificarsi con l’oggetto pre-concepito come presente. L’analista cessa di essere per il paziente una rappresentazione psichica del passato, perché diventa il momento presente del passato. Egli riproduce quegli elementi non sotto forma di ricordi, ma sotto forma di azioni; li ripete, ovviamente senza rendersene conto. Il soggetto ripete (agieren) una scena che presentifica il legame con l’oggetto del passato assente. Scena che è arcaica sia per la modalità di legame con l’oggetto, che ne distrugge lo statuto di oggetto totale, sia per la forma di rappresentazione primitiva appartenente al regno corporeo e delle immagini ideo-pittografiche. In questa rappresentazione drammatica l’altro dello spazio inter-soggettivo viene reclutato per recitare un copione inconscio, che si è psichicamente inscritto come gesti psichici non pensati verbalmente e che il soggetto si scambia con gli oggetti. Si tratterebbe, in altre parole, di una maniera particolare di simbolizzare, che riporta in evidenza attraverso il passaggio per l’intersoggettività, un’esperienza emozionale interiore invisibile perché estranea alla modalità di pensiero secondario dell’Io della narrazione coerente. Se l’analista parte dal presupposto implicito che ogni atto del paziente sia evacuativo e nocivo per il processo, può interpretare come transfert negativo e/o reazione terapeutica negativa certi momenti di cambiamento psichico che richiedono l’attuazione nello spazio della realtà. Una modalità di rappresentazione che non passa attraverso la parola ma attraverso una messinscena co-prodotta dal soggetto e da un altro, che nella situazione analitica è l’analista. Uno stato affettivo, per semplificare, che non si può descrivere a parole perché si presenta secondo la modalità arcaica dell’epoca in cui non c’erano parole per nominare le emozioni. Un’attivazione dello psichismo inconscio della quale l’analista si rende conto a posteriori di una messa in atto della propria posizione controtransferale, abitualmente mediata attraverso la sua attività interpretativa. Uno stato affettivo senza nome che l’analista potrà conoscere solo indirettamente attraverso la modalità con cui l’analizzando lo “adopera” per inscenare un determinato copione pulsionale, in modo analogo al bambino che usa gli oggetti materiali della sua stanza dei giochi come personaggi animati del suo mondo interiore. Però questi effetti sul suo psichismo impongono all’analista il lavoro elaborativo addizionale di congetturare un riferimento al passato, al quale ricollegare l’affetto verbalmente indicibile che ha invaso la scena analitica. Ciò gli permette di recuperare la sua posizione funzionale nel setting. Per questo è importante che l’analista non dimentichi che questa scena costruita mediante la sua attività immaginativa, sarà analoga, ma mai identica a ciò che si è iscritto ideo-pittograficamente nell’analizzando e che è inaccessibile all’organizzazione coerente dell’Io sviluppatasi intorno al pensiero verbale. In definitiva, l’idea che la regressione temporale dello psichismo dell’analista sia generata dall’intenzionalità regressiva dell’analizzando (di realizzare nel presente della situazione analitica una modalità di legame dell’inconscio non rimosso), presuppone concepire che ci sia nella psiche dell’analista un “qualcosa” che è in grado di rappresentare il personaggio con il quale l’analizzando lo identifica proiettivamente. Un atto di creazione artistica dell’analista che presta il proprio psichismo per rappresentare quello di un altro. Per questo l’interpretazione deve provenire dai livelli primitivi del funzionamento psichico dell’analista, dalla sua empatia ma, fondamentalmente, dall’elaborazione a posteriori della sua posizione controtransferale posta in atto. L’analista deve cioè sapere di cosa sta parlando per esperienza personale, perché dispone di un’organizzazione psichica sufficientemente flessibile, capace di disorganizzarsi e riorganizzarsi. Per concludere per Sapisochin (2016) la psiche è un organizzatore funzionale rappresentazionale della realtà che ha coesistenti gradienti di complessità simbolica, cioè come abbiamo già spesso visto, modalità diverse di elaborare trasformativamente i suoi contenuti. Sapisochin(2016) ipotizza l’esistenza di livelli funzionali e rapprentazionali primitivi, concettualizzati metapsicologicamente come inconsci non rimossi, che spesso invadono il funzionamento più evoluto della psiche. Sono modalità psichiche che si possono evidenziare solo in un rapporto intersoggettivo poiché sono modalità mentali non rappresentati in un inconscio rimosso intrapsichico. Quindi hanno bisogno di mettersi in una scena esperienziale intersoggettiva dove il terapeuta svolge la parte dell’attore principale insieme al paziente. Sapisochin chiama queste modalità mentali “gesti psichici” che hanno bisogno per venire in luce di un’esperienza di un enactment relazionale. L’autore descrive le caratteristiche di questi gesti psichici come funzionamenti arcaici della psiche poiché: - Per l’indifferenziazione tra il Sé e le rappresentazioni dell’oggetto - Per la forma di espressione mediante enactment - Per la forma di rappresentazione nella psiche secondo una modalità ideo-pittografica. Siamo d’accordo con l’autore per quanto riguarda i primi due punti, mentre il terzo dovrebbe essere forse ripensato alla luce della teoria, che talaltro Sapisochin cita e in un certo qual modo ne trova anche ispirazione di Bion e della Bucci. Entrambi questi autori come abbiamo già scritto pensano le modalità mentali dell’”Immagine o meglio dell’ ideo-pittogramma come modalità meno arcaiche di come sembra intenderle Sapisochin. In quanto per la Bucci l’immagine già appartiene al sistema simbolico anche se non verbale, mentre per Bion l’instaurarsi nella mente di pittogrammi ideativi già presuppongono che la funzione alfa abbia già fatto il suo lavoro di trasformazione degli elementi beta irrappresentabili. Si potrebbe invece pensare che proprio la scena rappresentata attraverso l’enactment aiuta a costruire delle immagini mentali che poi si legheranno a costruzioni narrative o al limite porteranno l’emergere di altre scene o gesti psichici che aiuteranno a far emergere ulteriori immagini o pittogrammi che porteranno a nuovi e sempre più complesse maglie psichiche narrative. Invece Cassorla (2012) intende questi atti psichici in maniera differente da Sapisochin, anche se per certi versi l’enactment, anche per questo autore è una forma di primo e quasi obbligatorio passaggio da compiere prima che si costituisca il pensiero rappresentativo e simbolico. Per Cassorla (2012) esistono due tipi di enactment cronico e acuto. La mente ferita perde la capacità di rappresentazione e simbolizzazione. Si instaura un buco mentale terrificante. Si avverte un dolore mentale che rispecchia la minaccia del “nulla”, dell’innominabile come dice Bion un terrore senza nome. Cassorla chiama questo stato “il non sogno traumatico” che racchiude in sé la ripetizione della situazione traumatica, nel tentativo frustrato di sognarla. Poiché la mente del paziente è compromessa ci si aspetterebbe che l’analista sia in grado di sognare quel “non sogno”. La situazione in cui si entra per Cassorla nell’enactment cronico in quanto si crea “un non sogno a due” pervaso di angoscia bloccata, in cui la situazione traumatica è congelata ed incapace di manifestarsi in modo palese. Ma ad un certo momento l’enacment cronico esplode e cede il passo a quello acuto. Tale cambiamento segnala il risveglio del trauma, che era stato bloccato, e la liberazione dell’angoscia ostruita e determina l’improvvisa loro invasione nel campo analitico. Quindi in breve l’enacment acuto consente all’analista di aprire gli occhi e rendersi conto di essere stato coinvolto in una collusione occludente, in un enactment cronico. Questa collusione racchiude in sé un concentrato di fenomeni ibernati correlati ai traumi. L’enactment acuto segnala lo scioglimento di quei blocchi emozionali legati all’evitamento del trauma. Esso torna in vita. Il campo analitico è invaso intensamente da esplosioni affettive. Insomma attraverso l’enactment acuto il trauma rivive nello spazio terapeutico. Ma tale riedizione del trauma questa volta non sarà traumatico in quanto l’analista dopo l’enacment acuto è ora in grado di comprendere il trauma, interpretarlo ed riassegnargli un significato, anche se in una prima fase non si tratta di uno sforzo del tutto cosciente. La seconda fase, con uno stato di pensabilità segnala che quella parte della mente compromessa è stata recuperata ed è rientrata in possesso della funzione simbolica e dell’amplificazione dell’universo mentale. Secondo questo modello il paziente traumatizzato si “aggrappa” all’analista, incoraggiandolo a prendere parte ad un enacment cronico. Una presa simile a quella di uno che sta affogando con il suo soccorritore, una presa che paralizza entrambi. Il terapeuta immobilizzato non deve essere intrusivo né rinunciare al paziente, le due situazioni traumatiche per eccellenza. L’emergere del trauma attraverso l’enacment acuto avviene in un momento particolare (né prima né dopo) quando la diade analitica comprende inconsciamente che sono state ripristinate le funzioni mentali sufficienti per sopportare e gestire il trauma rivissuto. Durante l’enactment cronico il terapeuta, nonostante ci sia un intreccio con il paziente collusivo e paralizzante mantiene la capacità di discriminare. In breve è in grado di usare implicitamente la sua funzione alfa in alcuni canali paralleli all’ostruzione. Questa funzione alfa implicita dovrebbe ripristinare gradualmente le funzioni mentali del paziente. Suggerisco che questa condizione è molto simile quella definita da Winnicott di funzione terapeutica di “holding”. L’ipotesi avanzata da Cassorla è che la funzione alfa implicita fa presumere una profonda comunicazione inconscia della diade analitica. Possiamo supporre che il paziente saggi inconsciamente “l’analista scudo protettivo” attraverso le sue identificazioni proiettive valutandone la capacità di contenimento. Quindi lungo i canali paralleli alla paralisi l’analista può inconsciamente iniettare al paziente la sua funzione alfa implicita. Ricordiamo che la funzione alfa per Bion permette il sognare, la simbolizzazione ed il pensiero. Per Cassorla la spiegazione per cui un enacment passi prima dallo stato di cronico e poi di acuto, o il perché un analista debba per forza di cose, in alcuni casi, passare prima per un enactment senza poter conservare la sua lucidità per iniettare nel paziente la sua funzione alfa esplicita, trova una spiegazione nel rapporto primario madre-bambino. Una madre adeguata si sforza di essere il suo bambino, l’holding di Winnicott, sperimentando le sofferenze del piccolo in modo da poterle sognare in sua vece. Per questo la madre chiude gli occhi ai propri bisogni, permettendo al piccolo di esistere. Viene così a formarsi qualcosa di simile ad un enactment cronico, con la madre che soffre insieme al bambino, pur non essendone del tutto consapevole. Perciò la madre conserva dentro di sé l’angoscia del bambino per tutto il tempo necessario. L’enacment acuto, a mio avviso, risveglia quindi il terapeuta come soggetto, può finalmente rioccuparsi di lui. Questo è un segnale che anche il paziente uscendo dalla situazione di integrazione psicosomatica, come l’intende Winnicott, si è strutturato, almeno in parte, come soggetto. Si può concludere affermando che molti luoghi della memoria implicita non possano essere simbolizzati o verbalizzati, per l’immaturità delle strutture anatomofisiologiche umane deputate alla traduzione simbolica, offre all’enactment uno statuto speciale: quello di un ponte eccezionale con l’inconscio non rimosso, che trova in esso una via preferenziale per manifestarsi e comunicare con l’altro. In tal senso l’attenzione all’enactment in terapia rivela l’intreccio comunicativo dei due inconsci, e consente di riflettere sulle mosse relazionali reciproche che vanno intessendosi in una relazione analitica, sul suo procedere, sulle soste e gli impasse, sino a poter venir messe in parole a tempo debito, e non necessariamente. Ma porteranno alla via della simbolizzazione se ne fa un uso accurato e riflessivo dopo che sono accaduti da parte dell’analista. Cerchiamo di distinguere l’enactment dall’acting out. L’acting è una forma di evacuazione, come l’allucinazione, e come il rovesciamento degli stati emozionali traumatici o conflittuali nel somatico (Ferro, 2007). Traduce un aspetto inconscio urgente, lo materializza, lo espelle, senza porsi nella traiettoria oggettuale di comunicarlo all’altro della relazione, che rimane una possibilità: ma semmai evacuandolo nell’altro, colpendolo, buttandoglielo addosso senza riguardo alla sua soggettività. Sotto questo profilo l’acting è solitario, narcisistico, non ha bisogno dell’altro; e qualora lo interpelli, è solo per un uso strumentale e proiettivo/evacuativo. L’enactment invece si rivolge all’altro della relazione. Spesso precede una comunicazione verbale omologa, un’interpretazione che dice “lo stesso” a parole, rivolta all’altro. Riveliamo che né l’enactment né l’acting siano momenti di simbolizzazione, né verbale, ne iconica, Si collocano in un’area presimbolica dove pure esiste, nel caso dell’enactment soprattutto una forte capacità comunicativa, preverbale , e per dirla con la Bucci un inizio di simbolizzazione attraverso l’azione-enactment. Possiamo dire allora che l’enactment è una forma comunicativa gestuale, presimbolica, mentre l’acting è una forma comportamentale di scarica energetica, emotiva, non intenzionata all’oggetto. Ma per differenziarli oltre all’intenzionalità inconscia, e l’espressione soggettiva dell’analista, si può dire che l’ultima parola spetterebbe al paziente. Sarà la dinamica aperta dalla risposta del paziente, che offrirà lo statuto di enactment relazionale o di acting autoreferenziale. Se il paziente offre un senso comunicativo al comportamento dell’analista, allora lo rende relazionale, lo qualifica come un enactment. Con Bion (1971) e Ferro (2007) potremmo dire che lo alfabetizza. Se invece il paziente né è semplicemente urtato, respinto come di fronte ad un gesto gratuito, irrelato, come di fronte ad un’azione che esaurisce il proprio senso in se stessa, allora ogni significato relazionale resta bandito; il comportamento rimane chiuso nella uso non simbolizzabile di acting. L’elemento beta di Bion. A livello neurofisiologico le messe in atto o gesti psichici appartengono come abbiamo detto alla memoria implicita. L’organo principale a livello sottocorticale di questa memoria è l’amigdala. L’amigdala è responsabile della reazione emotiva immediata, e mette in connessione la percezione degli stimoli della realtà, l’attivazione di stati somatici e la ritenzione mnestica. Sono risposte che non richiedono le funzioni cognitive superiori da parte di quei centri, come l’ippocampo (sede della memoria esplicita) che cominciano a maturare a partire dal secondo anno. Le esperienze emozionali precoci con l’ambiente favoriscono certi tracciati sinaptici, al posto di altri, i quali, in presenza di una certa ricorsività dell’esperienze emozionale, possono aver sempre più rilievo rispetto ad altri tracciati che vanno incontro ad una progressiva atrofizzazione: come per certi sentieri di campagna che se non percorsi e abbandonati alla fine si perdono fra le sterpaglie. Quindi proprio perché c’è questa precoce maturazione, si può concordare che l’amigdala sia il substrato neurobiologico dell’inconscio (ovvero alla memoria implicita e all’inconscio non rimosso) dove le esperienze che non sono mai registrate nelle strutture neuronali implicate nella memoria esplicita non possono essere rimosse, né se ne può avere alcuna consapevolezza. L’inconscio non rimosso si struttura a partire dall’interiorizzazione delle esperienze depositate nella memoria implicita (questo argomento della memoria implicita lo affronteremo meglio a partire dal prossimo capitolo). Questo presuppone che fra questi due concetti ci sia una differenza che spesso, come avverte Craparo (2015) viene ignorata come priva di importanza. Si può considerare la memoria implicita il risultato di un funzionamento biologico, laddove l’inconscio non rimosso si può riferire all’aspetto fenomenico di quanto residua della relazione che il neonato intrattiene con la realtà ambientale nei suoi primi due anni di vita. Quindi l’inconscio non rimosso rappresenta così il barlume di una realtà che il neonato dota di significato emotivo (non semantico) in rapporto alla qualità delle relazioni interpersonali. Barlume la cui luminosità può essere rafforzata da relazioni con figure di accudimento contenitive, supportive; o che può affievolirsi a causa di relazioni emotivamente ricorsivamente trascuranti. Quanto descritto sin qui pone in relazione trama, dissociazione e disregolazione emotiva, i cui substrati neurobiologici hanno a che fare con un danno nelle aree subcorticale e corticali dell’emisfero destro; di quell’emisfero responsabile dell’elaborazione dell’informazione emotiva, implicata nella percezione sensoriale, che rende il bambino in particolar modo nei primi due anni di vita particolarmente recettivo alle sollecitazioni emotive veicolate dalle proto-comunicazioni che caratterizzano il suo rapporto con le figure di accudimento. Quindi l’inconscio non rimosso rappresenta il principio organizzatore di un senso di sé primitivo , che si costituisce a partire dalle prime relazioni emotive. Se il bambino fa esperienza di un ambiente emotivamente trascurante, non in grado cioè di sintonizzarsi e di riconoscere le sue richieste emotive, ciò provocherà il residuarsi di emozioni primitive traumatiche dall’effetto disturbante per lo sviluppo psicosomatico. Queste emozioni traumatiche popolano quella parte della psiche definibile come inconscio non rimosso, costituendo veri e propri buchi corporei capaci di evocare vissuti terrificanti. Diversamente da come potrebbe sembrare, questi buchi non hanno le sembianze di una voragine, di un vuoto esperito a livello conscio. Ma come immaginato da Craparo (2015) possono non essere viste queste emozioni traumatiche come elementi costitutivi di un buco che ha caratteristiche equiparabili al buco nero descritto in astronomia. Il buco nero corrisponde ad una massa particolarmente densa costituita da materia con un campo gravitazionale così forte da impedire alla luce di staccarsi dalla sua superficie. Quindi alla maniera dei buchi neri, le emozioni traumatiche impediscono al soggetto di fare esperienza visiva (consapevole) degli stati mentali, mantenendoli ad un livello pre-simbolico, sensoriale e primitivo. L’estensione di questo buco può essere in rapporto all’accumularsi di tracce mnestiche di emozionalità negative in rapporto al trauma evolutivo. Quindi il senso di vuoto può essere la rappresentazione immaginaria di un troppo pieno di contenuti emozionali negativi primitivi, di cui il soggetto non può avere alcun ricordo ma solo una memoria somatica: una presenza di un’assenza.